Un cortocircuito di intertestualità: il finale dei “Malavoglia”

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Tra i mottetti delle Occasioni a me più cari c’è sicuramente Ti libero la fronte dai ghiaccioli, nel quale Montale si rivolge a un tu femminile, identificabile con Clizia, senhal di Irma Brandeis, la giovane dantista americana conosciuta a Firenze nel 1933: dopo il primo “quadro”, in cui si raffigura la visiting angel sofferente per il sonno agitato e la traversata oceanica, nella seconda quartina, come annota Dante Isella nel suo commento, nonostante sia mezzogiorno, «il nespolo allunga un’ombra minacciosa nel riquadro della finestra, gli uomini scantonano chiusi nella loro cieca solitudine. Ombre anch’essi, “non sanno” la possibilità del miracolo».

Il nespolo non può che rimandare alla casa del nespolo e dunque ai Malavoglia di Giovanni Verga, opera-chiave del quinto anno di corso e snodo fondamentale tra Leopardi e il Decadentismo italiano di Pascoli e d’Annunzio. Non amo il primo romanzo del Ciclo dei Vinti, lo ammetto, ma credo che il finale, con il commiato di ‘Ntoni da Aci Trezza, rappresenti uno dei passi più emozionanti della letteratura italiana (per altre letture “da brividi”, clicca qui), un “pezzo di bravura”, una “perla” in un’opera che MAI mi sognerei di assegnare come lettura individuale alla mia classe. Ritengo però sia necessario soffermarsi anche due ore sulla pagina che chiude l’opera perché, a mio avviso, è uno dei rari testi su cui si possa attivare con facilità la classe come comunità ermeneutica: nell’ottimo manuale che ho avuto in adozione per quattro anni, Amor mi mosse, di Frare, Langella, Gresti e Motta, venivano infatti poste a confronto le famose interpretazioni antitetiche di Luigi Russo e Romano Luperini.

Ma per un docente come me cresciuto a “pane e intertestualità”, rileggere il brano attiva nella mente tutta una serie di connessioni che ho deciso di fissare in questo articolo, un po’ per condividere con i miei lettori (docenti, ma anche semplici appassionati di letteratura) una chiave di lettura diversa del passo, ma anche per fissare a me stesso (per ritornarci un futuro), la messe di riflessioni che faccio nell’ “ora di lezione”. Per chi volesse un riferimento bibliografico, consiglio le pagine che al capitolo finale ha dedicato Alberto Di Franco nel volume Leggere i classici italiani: un’antologia, edito da Pàtron nel 2019 (il contributo si legge alle pp. 193-203).

Com’è noto, il finale del romanzo impegnò Verga a lungo e nella prima stesura l’opera si concludeva con la frase pronunciata da ‘Ntoni: «- Addio –  ripeté ‘Ntoni. – Vedi che avevo ragione d’andarmene! Qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti». Tuttavia questa chiusura patetica e strappalacrime non piaceva a Verga, che non la riteneva neanche consona con le tecniche narrative del Verismo. Così decise di aggiungere mezza pagina, nella quale il personaggio percorre il paese di Trezza ancora addormentato, condividendo il destino con il mare, che «non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare». Nelle ultime righe, dopo una ripetizione martellante del verbo «cominciare», il personaggio in scena è Rocco Spatu, un pitocco che potrà finalmente ricominciare il ciclo garantito dal cronotopo dell’idillio familiare, escluso all’outcast ‘Ntoni, che lascerà per sempre il borgo.

Michail Michajlovic Bachtin, autore di Estetica e romanzo, in cui è presente la categoria di cronotopo.

Ragionando con la classe e attivando la memoria letteraria (mia e loro), abbiamo visto come il passo, oltre a contenere una serie di echi, tanto dalla letteratura classica, quanto da quella moderna, comprenda anche degli elementi riconducibili alla sfera del sacro. Si tratta di fonti letterarie note, immediatamente intellegibili anche al lettore meno appassionato, che fanno parte, insomma, di un “bagaglio di conoscenze” che lo studente liceale dovrebbe possedere in uscita, ma che ci fanno capire come Verga abbia concepito il passo in maniera non banale.

Dopo il dialogo tra Mena e Alfio Mosca, splendido esempio di eros negato manzoniano (prima fonte…) e la narrazione della morte del patriarca in ospedale, la vicenda si sposta nella casa del nespolo, di recente riacquistata da Alessi, erede del nonno e portatore della linea conservatrice e legata ai valori arcaici. Intorno al focolare domestico, il narratore ricorda che «dei Malavoglia ce n’erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello a cercarli dove potevano essere, per le strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero tornati più, dopo tanto tempo». Un vagabondo però appare nel paragrafo successivo, segnatamente di sera, per non farsi riconoscere dal paese:

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ‘Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato, e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai.

Il lettore avveduto non potrà che vedere in questa descrizione la ripresa del libro XVII dell’Odissea, con l’episodio di Odisseo che torna a Itaca travestito da mendicante e viene riconosciuto dal cane Argo, che muore vedendo l’antico padrone. Com’è noto Odisseo è insieme al fedele porcaro Eumeo, a cui l’eroe non ha ancora svelato la sua vera identità, preferendo per il momento celarsi sotto le mentite spoglie di un mendicante. Odisseo si è fatto riconoscere solo dal figlio Telemaco, per ordire il piano volto a vendicarsi dei Proci e sarà cauto nel rivelarsi ai suoi amati; Argo è invece l’unico personaggio che, grazie alla sua straordinaria sensibilità, riuscirà a riconoscere nel vecchio mendicante il compagno di tante cacce.

«Questo è il cane d’un uomo che morì lontano.
Se ora fosse di forme e di bravura
come, partendo per Troia, lo lasciò Odisseo,
lo vedresti con meraviglia così veloce e forte.
Mai una fiera sfuggiva nel folto della selva
quando la cacciava, seguendone abile le orme.
Ma ora infelice patisce. Lontano dalla patria
è morto il suo Odisseo; e le ancelle, indolenti,
non si curano di lui. Di malavoglia lavorano i servi
senza il comando dei padroni, poi che Zeus
che vede ogni cosa, leva a un uomo metà del suo valore,
se il giorno della schiavitù lo coglie.

(da Odissea, canto XVII, trad. di S. Quasimodo, A. Mondadori, Milano)

L’Odissea è il poema del nostos e un ritorno è sicuramente quello di ‘Ntoni ad Aci Trezza, ma senza l’eroismo del personaggio omerico: anzitutto il protagonista non riconquista nessuna reggia; il cane poi non lo accoglie festante e, a differenza di Argo, non lo riconosce, ma gli abbaia contro; i suoi vestiti da pezzente non hanno alcun fine strategico per la vendetta, ma certificano solo il fallimento di un personaggio che voleva andare in città per «non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni» (G. Verga, I Malavoglia, cap. XI).

Ma soffermiamoci un attimo sulla frase «tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga»; in questo cortocircuito di intertestualità Verga poteva aver presente l’apparizione di Ettore a Enea nel II libro dell’Eneide in cui all’esule troiano appare in sogno l’eroe ucciso da Achille:

Tempus erat quo prima quies mortalibus aegris
incipit et dono divum gratissima serpit.
in somnis, ecce, ante oculos maestissimus Hector               270
visus adesse mihi largosque effundere fletus,
raptatus bigis ut quondam, aterque cruento
pulvere
perque pedes traiectus lora tumentis.
ei mihi, qualis erat, quantum mutatus ab illo
Hectore
qui redit exuvias indutus Achilli               275
vel Danaum Phrygios iaculatus puppibus ignis!
squalentem barbam et concretos sanguine crinis
vulneraque illa gerens
, quae circum plurima muros
accepit patrios.

Ci sono elementi che Verga sicuramente riprende da Virgilio nella descrizione di ‘Ntoni che torna da Alessi per un ultimo saluto: l’eroe omerico “bello e buono” appare nel poema virgiliano come maestissimus, ricoperto di polvere, con la barba insanguinata e, soprattutto (riporto la traduzione) «quanto mutato dal grande Ettore, che tornò vestito delle spoglie di Achille». Le lacrime tornano, d’altra parte, diverse volte nel passo dell’addio di ‘Ntoni e quel maestissimus potrebbe essere ripreso quando Verga annota che il reietto «parlava cogli occhi fissi a terra».

Quando Alessi invita ‘Ntoni a dare un ultimo sguardo alla casa del nespolo, viene citato il vitello: «Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello»; l’animale ricorre 11 volte nell’intero romanzo e per ben due volte nel finale, nello specifico nella sequenza immediatamente precedente («Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di là, per le strade e davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo»). E qui, in una lezione di questo anno scolastico, grazie a una studentessa particolarmente brillante, è sbucata un’altra fonte a cui potrebbe aver attinto Verga: la parabola del figliol prodigo, raccontata nel Vangelo secondo Luca: «Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa». Si possono stabilire delle tangenze tra le due vicende: un personaggio che si è allontanato di casa, che si è dedicato a una vita dissoluta (‘Ntoni e il figliol prodigo), un altro che si è mantenuto fedele al padre, non ha mai infranto dei divieti e che prosegue la tradizione di famiglia (Alessi e il figlio maggiore). Però, in questa sovrapposizione, Alessi smette di essere un fratello, ma diventa una sorta di “padre” di ‘Ntoni, che non percepisce come rivale, ma a cui esprime la sua solidarietà e il desiderio di includerlo in quell’ordine che ha così faticosamente ricostruito.

Rembrandt, “Ritorno del figliol prodigo”

Insomma, un passo assai patetico, una conclusione strappalacrime che, come ho scritto sopra, Verga cercò di evitare, con l’aggiunta di una sequenza che, oltre a far riferimento al mare (elemento tipico dell’Odissea e della parte odissiaca del poema virgiliano), introduce il personaggio di Rocco Spatu. Su quest’ultimo sono state avanzate diverse interpretazioni, ma mi pare molto interessante quella di Annalisa Izzo, docente all’Università di Losanna, inserita nell’articolo intitolato L’ultimo Malavoglia (recuperabile qui). Già Giovanni Ragonese nel contributo L’epilogo dei Malavoglia e l’epilogo di Madame Bovary», inserito nella miscellanea I Malavoglia, Atti del convegno internazionale di studi, Catania, FondazioneVerga, 1982, vol. I, aveva fatto notare la somiglianza tra il finale del capolavoro del Realismo francese, Madame Bovary e il primo romanzo del ciclo dei Vinti.

Ma Confrontiamo quindi le due frasi che chiudono le opere:

«Il vient de recevoir la croix d’honneur» (trad. it. «Gli hanno appena conferito la Legion d’Onore»).

«Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».

Dopo la scena patetica del lungo addio, il romanzo si chiude con un personaggio insignificante, che, a differenza di ‘Ntoni, potrà ricominciare la sua giornata; Luigi Russo sentiva questa frase come «”atona”, un non-sense che fa da suggello al “trito realismo” del brano finale» (L. Russo, Introduzione a Id., Giovanni Verga, Ricciardi, Milano-Napoli 1965, p. XXI), che si sostanziava nella celebrazione della religione della famiglia e nel trionfo di Alessi. Annalisa Izzo invece definisce la frase finale con un termine preso dal linguaggio della pubblicità, tag-line, ovvero una frase breve e diretta che condensa tutto il messaggio dell’opera. Mi trovo concorde nell’interpretazione di Romano Luperini, che vede i Malavoglia come una tragedia moderna e nel commento che del passo fa la docente di Losanna: «Rimane il principio dell’impersonalità, ma c’è qualcuno che sta denunciando un destino beffardo che costringe all’auto-espulsione il solo che abbia gli occhi buoni a interpretare quel mondo da cui si esilia, lasciando invece dentro chi ripropone il solito inganno» (A. Izzo, L’ultimo Malavoglia, «Rivista svizzera delle letterature romanze», 57 (2010), p. 158.). Il borgo di Aci Trezza ricomincerà quindi il solito inganno, mentre «’Ntoni non può restare coi fratelli nella recuperata casa del nespolo: lo sguardo critico che il ribelle porta all’interno di quel mondo è inconciliabile con la strenua volontà di chi vuol chiudere gli occhi» (A. Izzo, art. cit., p. 160). Il finale ci permette quindi di proporre ipotesi interpretative sottili, di vedere in quel romanzo una forte critica al mito del progresso: Verga ha quindi superato Flaubert, «fissando nella sospensione la stessa visione cupa e involutiva dei rapporti umani e delle norme sociali» (A. Izzo, art. cit., p. 162).

Arrivati in fondo a questo esercizio magari erudito, ci si potrà domandare l’utilità didattica di un percorso del genere, quando l’Esame di Stato si risolve solitamente in un colloquio che gira intorno ai soliti concetti stereotipati di pessimismo storico, cosmico, maschera di Pirandello e fanciullino di Pascoli; da docente di italiano credo però che analizzare un testo in profondità sia un’operazione di problem solving paragonabile alla risoluzione di un quesito di matematica, un vero e proprio esercizio per esercitare e potenziare più competenze, anche di cittadinanza e per allenare quella lettura profonda che il digitale sta sempre più erodendo. Cerchiamo quindi di fare meno, ma meglio, di non ridurre la letteratura italiana a una carrellata di autori con 1-2 opere, ma di andare più in profondità negli argomenti che affrontiamo. E di attivare la memoria letteraria. In un mondo in cui ahimé la memoria non è più un valore e, presi dalla frenesia del presente, tendiamo a essere bulimici verso la miriade di informazioni che ci bombardano ogni giorno. Leggere e “stare” sui classici, su un brano davvero profondissimo, consente di “fermare” per qualche tempo il frullatore in cui, docenti e studenti, sono immersi da settembre a giugno. Ne vale la pena, fidatevi.

Una opinione su "Un cortocircuito di intertestualità: il finale dei “Malavoglia”"

  1. Tutto perfetto, Matteo, spesso gli incipit e i finali dei grandi classici continuano a stupirci perché aprono e chiudono storie che hanno sempr qualcosa da dire al nostro oggi. Anch’io non faccio leggere I Malavoglia integralmente, meglio il film opera Cavalleria ruisticana di Zeffirelli o la serie tv tratta da Germinal di Zola…
    I rimandi al cane di Ulisse, all’Ettore spettro virgiliano e alla parabola del padre misericordioso sono ottimi. Mi convince meno quello con Flaubert.
    Concordo sulla lettura in chiaroscuro circa il finale del romanzo verghiano. ‘Ntoni resta escluso dal perseunto idillio di Aci Trezza perché ormai ne ha visto i limiti e le strettezze mentali.

    ps perché non confrontare (per opposizione) l’epilogo del romanzo con L’addio ai monti manzoniano?

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