Una poesia per la Giornata della Memoria: “A Liuba che parte”

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Tra i volumi della mia libreria per me più cari c’è sicuramente Per Franco Gavazzeni. Ritratto di un maestro, regalatomi da una ex-studentessa, Giulia, figlia del grande filologo bergamasco, docente a Pavia e scomparso prematuramente il 9 agosto del 2008. Il libro, stampato nel 2010, raccoglie una serie di testimonianze di colleghi e allievi, che ricordano Gavazzeni con aneddoti ed esperienze condivise negli anni pavesi; tra questi brevi contributi, riveste per me un significato profondo quello di Giampiero Costa, dal titolo Una biblioteca di libri letti, in cui l’autore ricorda le circostanze che lo portarono a chiedere la tesi su Camillo Sbarbaro. Gavazzeni domandò all’indeciso laureando su cosa volesse scrivere la tesi e, quando Costa manifestò la sua predilezione per la prosa, aggiungendo, però che non conosceva nulla dell’autore di Trucioli, il maestro con pacatezza lo rassicurò così: «all’inizio nessuno sa niente». A voi parrà una frase banale, ma la penso esattamente come Costa, quando annota: «quella frase non l’ho mai dimenticata, mi ha guidato in varie situazioni della mia vita, non solo professionale» (G. Costa, Una biblioteca di libri letti, in Per Franco Gavazzeni. Ritratto di un maestro, Monotipia Cremonese, Cremona 2010, p. 118).

Una celebre immagine di Franco Gavazzeni, assorto nelle sue letture. Immagine reperibile all’url https://www.giannifrancioni.it/gallery-maestri-compagni/

All’inizio quindi «nessuno sa niente», ma quello che non deve mancare, sia nel lavoro sia nella vita, è la curiosità a conoscere, indagare, approfondire. In ambito professionale, anche a me capita spesso di essere colpito da una poesia, da un autore, da una metodologia, di cui ovviamente all’inizio, iperbolicamente, non so nulla; questa dinamica si è messa in moto di recente per preparate il quarto appuntamento di una rubrica che tengo sulla mia pagina Instagram, “Appuntamento con Montale”, (se non la conosci, clicca qui!) in cui, ogni 12 del mese, leggo e commento una poesia dell’autore ligure, mia grande passione. Sfogliando l’indice delle Occasioni in cerca di una breve lirica a cui dedicare la quarta puntata, sono rimasto colpito da A Liuba che parte, componimento raramente antologizzato sui manuali di letteratura italiana. La sua lettura mi ha fatto entrare in sentieri ignoti: la critica strutturalistica del semiologo D’Arco Avalle, gli animali presenti nelle opere di Dickens e Collodi, la biografia di Ljuba Blumenthal, che ho scoperto essere la donna amata da Bobi Bazlen, campione di quel côté mitteleuropeo che mi affascina da sempre. Un viaggio su sentieri impervi, perché ignoti, ma da cui sono ritornato, come sempre, arricchito. Un percorso che tocca uno dei momenti più bui del Novecento: le leggi razziali del 1938 e le persecuzioni contro gli ebrei.

A Liuba che parte è una poesia inclusa nella prima sezione delle Occasioni, seconda raccolta di Montale, uscita nell’ottobre del 1939 per Einaudi a un mese dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e preceduta dalla plaquette del 1932 La casa dei doganieri e altri versi, contenente 5 liriche poi confluite nell’opera. Si tratta del Montale più complesso: come racconta egli stesso nell’Intervista immaginaria, pubblicata nella rivista «La rassegna letteraria» n.1 del gennaio 1946 (oggi in E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976), scrivendo le Occasioni, «Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi».

Con “occasione” Montale fa riferimento al recupero casuale di un momento di vita piena, un ricordo, che emerge all’improvviso dal monotono scorrere del tempo; come sostiene Romano Luperini in Modernismo e poesia italiana del primo Novecento, apparso su «Allegoria online» (clicca qui se vuoi approfondire), la poesia delle Occasioni si inserisce nel vasto movimento del modernismo europeo, una tendenza che mira a rinnovare profondamente la letteratura, portandovi la nuova cultura messa in circolo da Nietzsche, Bergson, Freud. Per Luperini, Montale rappresenta quindi, con Ungaretti, nell’Italia degli anni Venti e Trenta, uno degli esempi più avanzati del modernismo europeo: il poeta ligure infatti «introduce nella poesia delle Occasioni le oscillazioni e intermittenze del cuore di Proust, le epifanie di Joyce, il correlativo oggettivo di Eliot» (R. Luperini, Modernismo e poesia italiana del primo Novecento, «Allegoria online», p. 100).

A Liuba che parte è una lirica di soli 8 versi, composta nel 1938, che ritrae Liuba, figura ispirata a Ljuba Blumenthal, ebrea di origini carpatiche amica di Montale, nel momento della partenza dall’Italia, perché le leggi razziali emanate dal Fascismo nello stesso anno avevano proibito la permanenza in Italia degli ebrei stranieri. Per facilitare la comprensione è opportuno riportare il componimento, a p. 59 dell’edizione commentata Mondadori a cura di Teresa de Rogatis.

Non il grillo ma il gatto

del focolare

or ti consiglia, splendido

lare della dispersa tua famiglia.

La casa che tu rechi

con te ravvolta, gabbia o cappelliera?

sovrasta i ciechi tempi come il flutto

arca leggera – e basta al tuo riscatto.

La poesia colpisce per la sua brevità, ma anche per la commistione tra due toni, leggero nella prima parte con la citazione degli animali e della cappelliera, tragico nella seconda con il riferimento ai ciechi tempi: il semiologo D’Arco Avalle sostiene che ci troveremmo «di fronte di fronte ad un’arietta d’opera, o meglio ad una “parodia” (imitazione) di arietta» (S. D’Arco Avalle, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, p. 93); egli ritrova inoltre nella poesia la struttura di un componimento noto in età medievale come “dipartita“. Liuba porta con sé (in Inghilterra) il gatto, cui è affezionata, e lo sistema in uno dei bagagli, con la funzione di “gabbia o cappelliera”; tale notazione, continua D’Arco Avalle, «fra il serio e il faceto illumina di simpatia e di speranza la scena dell’addio».

Il grande D’Arco Avalle in una foto giovanile.

Ma ciò che colpisce nei primi versi è la presenza di due animali, che ci fanno comprendere l’intersezione continua in Montale tra biografia e letteratura; per quanto riguarda il grillo, l’autore scrive ad Avalle che «l’idea [è] un ricordo di quella festa di Firenze in cui si vendono grilli in gabbia». Ljuba aveva infatti comprato, durante la festa dell’Ascensione, detta infatti del grillo, una di queste piccole bestiole in gabbia. In realtà, il grillo è un animale “letterario”, presente, infatti, in due opere che Montale sicuramente conosceva, ovvero I libri di Natale di Charles Dickens e, ovviamente, Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi.

Per quanto riguarda il primo autore, il romanzo di riferimento è Il grillo del focolare (termine presente, nella lirica delle Occasioni, in questo cortocircuito di intertestualità, al verso successivo!): qui il protagonista, John Peerybingles, conserva sul focolare un grillo che è capace di parlare e si comporta come un guardiano per la famiglia di John, molto affezionato all’animale, così come la moglie, Mary, che dice: « Io l’amo, perché l’ho inteso tante volte e sempre la sua innocente armonia ha risvegliato nella mia mente tanti dolci pensieri. Sovente sul tramonto, quando io mi sentiva un poco solitaria e mesta di cuore, prima che fosse venuto il nostro bimbo a tenermi compagnia e far gaia la casa; quando m’accadeva di pensare come t’avrei lasciato soletto se fossi morta, ed alla grande pena che avrei provata nel doverti abbandonare, allora dal focolare domestico sorgeva una piccola voce tanto soave, tanto cara, e per essa la mia tristezza svaniva come per incanto» (C. Dickens, Il grillo del focolare (1845), traduzione dall’inglese di Grazia Pierantoni Mancini, p. 27).

Frontespizio del romanzo di Dickens, intitolato The Cricket on the Hearth, a FairyTale of Home

Ma il grillo ci rimanda ovviamente, in ambito italiano, a quello “parlante” delle Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, dove l’animale rappresenta la saggezza delle persone di buon senso, ma anche la coscienza del burattino di legno; nella poesia di Montale però non c’è un grillo a consigliare Liuba, ma un gatto, che è definito “lare” della famiglia dispersa e che ama stare vicino (anche metricamente, creando una rima interna inclusiva) al focolare, per scaldarsi al calore della fiamma.

Il Grillo Parlante in un’illustrazione di Enrico Mazzanti del libro Le avventure di Pinocchio

“Lare”, per il lettore colto, fa venire in mente i “Lari”, le divinità venerate dai Romani, specialmente nel culto privato presso il focolare domestico con Vesta e con i Penati. Come si legge nell’Enciclopedia Treccani, «Il lare familiare vegliava sulle fortune della casa e a lui i membri della famiglia rendevano culto quotidiano, specialmente alle calende, none, idi». Il gatto, probabilmente eredità o dono fatto a Liuba, è definito con una metafora “lare”, perché incarnerebbe l’origine e la memoria del gruppo familiare disperso nel mondo.

Il culto dei Lari; immagine reperibile all’url: https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html

La famiglia è dispersa: l’aggettivo rievocherebbe la diaspora, ovvero la “dispersione” in varie parti del mondo del popolo ebreo costretto ad abbandonare la sua sede di origine dopo la fine di un’entità politica ebraica in Palestina a seguito della duplice distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70 e nel 135 d.C. D’altra parte l’impossibilità di rimanere insieme al poeta e il nomadismo sono una cifra delle donne delle Occasioni: sempre in procinto di partire, assenti/presenti, che affollano la memoria del poeta con folgorazioni fulminee, a cui seguono altrettanto istantanee sparizioni. Ebrea era anche Irma Brandeis, dantista giovane americana che irruppe nella vita del poeta nel 1933 e che illuminò gli anni dal 1933 al 1939, musa della sua produzione a partire dai Mottetti fino ad arrivare a La bufera e altro, dove è cantata col nome mitologico di Clizia.

Ljuba Blumenthal però non sparisce dalla letteratura con la lirica montaliana, ma riemerge, come ho scoperto per la prima volta il mese scorso (e ritorna quindi il monìto di Gavazzeni a Costa), grazie al suo legame con Bobi Bazlen, lettore e traduttore onnivoro, di origine triestina. Nell’articolo di Chiara Mattioni si rievoca un incontro tra il padre, Stelio Mattioni, e Bazlen, che stava pubblicando i suoi racconti; qui Ljuba è descritta come «alta, magra, fine, con il naso pronunciato, gli occhi lunghi e truccati dietro le lenti azzurognole, di notevole fascino; […] i due parlano di magia (sembra che la Ljuba la pratichi), di gatti, di coincidenze» (C. Mattioni, La cartella di Bobi Bazlen che odorava di muffa spedita da Ljuba nel 1966 all’amico Stelio Mattioni, «Il Piccolo», 31.05.2022). Un gatto che fa dunque un balzo dalla lirica montaliana alla conversazione del 1960 tra Ljuba e Stelio Mattioni.

Un giovane Bobi Bazlen. Immagine reperibile all’url https://www.liminarivista.it/comma-22/bobi-bazlen-lombra-di-trieste/

Bazlen, al momento della morte, risiedeva infatti in Inghilterra, con la sua compagna Ljuba in una splendida casa vicino allo stadio di Wimbledon. Ljuba era quindi sopravvissuta ai “ciechi tempi”, portando con sé una valigia e qualche oggetto lezioso; di fronte al diluvio universale provocato dal nazismo, la cappelliera adibita a gabbia per il gatto aveva rappresentato per lei un’arca di salvezza: per i dantisti, leggere «ciechi tempi» non può che rimandare alla memoria le parole che Cavalcante Cavalcanti rivolge a Dante nel canto X dell’Inferno: «Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? e perché non è teco?»; d’altra parte, in Inferno IV, Virgilio afferma: « Or discendiam qua giù nel cieco mondo». E come non paragonare a un Inferno la sorte di milioni di deportati nei campi di sterminio? Le scritte all’ingresso dei campi di sterminio, come Auschwitz e Dachau, che recitano Arbeit macht frei ricordano d’altra parte la scritta «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» (Inf. III 9), scolpita sulla porta dell’Inferno dantesco. Liuba però ha avuto un destino diverso: la sua arca, di evidente ascendenza biblica, le ha consentito di continuare a vivere anche attraverso la catastrofe.

È quindi bastata al suo riscatto, dove con questo termine si allude non solo alla redenzione del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto ma, per legare questo termine alla Giornata della Memoria, anche alle quote di denaro che gli ebrei versavano ai nazisti per espatriare da Germania e Austria. Anche in Italia gli ebrei cercheranno di riscattarsi dalla libertà versando un ingente quantitativo d’oro al capo della polizia di occupazione tedesca Herbert Kappler; lo racconta al cinema Carlo Lizzani con L’oro di Roma, ma la vicenda è delineata anche in un interessante articolo di Ariela Piattelli dal titolo 50 chili d’oro, l’illusione per riscattare la libertà, apparso su «La Stampa» del 23 gennaio 2021. Le ricevute, quasi 500, sono conservate ora al Museo Ebraico di Roma, e dimostrano come gli ebrei romani, pochi giorni prima dell’inizio delle deportazioni di massa in Italia, si illudessero di riscattare con un gesto disperato la propria libertà, cadendo nell’inganno dei nazisti.

Un’immagine del Museo Ebraico a Roma.

La storia di Liuba-Ljuba ha un lieto fine, come ci dimostra il contatto con Bobi Bazlen e Stelio Mattioni ma, a fronte di una vicenda di salvezza, dobbiamo tenere memoria di tante altre di sofferenza e di morte. Perché i ciechi tempi del v. 7 sono sempre dietro l’angolo, in forme magari meno eclatanti delle persecuzioni nazi-fasciste, ma pronti a riemergere.

3 pensieri riguardo “Una poesia per la Giornata della Memoria: “A Liuba che parte”

  1. Analisi piacevole e condivisibile, dall’inizio alla fine. “All’inizio nessuno sa niente”, adesso so qualcosa di più di questa poesia di Eugenio Montale, grazie Matteo.

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