Grande clamore ha suscitato l’uscita dei dati Invalsi 2021 (qui la pagina con tutti i numeri) che mettono in evidenza un calo ulteriore delle già deboli competenze di base in italiano, matematica e inglese degli studenti delle classi terminali del 1^ e 2^ ciclo; nello specifico, a fare scalpore sono soprattutto i numeri della scuola secondaria di II grado, con il 39% degli studenti che non è arrivato al livello minimo di italiano e addirittura il 45% in matematica; quasi il 10% poi ottiene il diploma, ma con delle competenze di base fortemente inadeguate. Come sempre, cercherò di fare qualche riflessione limitandomi però al segmento di istruzione in cui lavoro, consapevole che alcune dinamiche sono, ahimé, presenti anche al I ciclo.

Prima di iniziare l’analisi, giova ricordare che ben l’82% della popolazione scolastica del II ciclo ha effettuato tali prove, per le quali è stata concessa una finestra temporale molto estesa, di modo da consentire alle scuole di far svolgere i test computer based a classi in presenza al 50% o 75%, tenendo anche conto di eventuali quarantene e isolamenti fiduciari. Ogni considerazione deve quindi partire dalle condizioni precarie in cui le prove Invalsi sono state svolte nella scorsa primavera: cercando di sfruttare la presenza delle quinte a scuola, incastrando la disponibilità dei laboratori di informatica, prevedendo l’assenza di casi legati al covid (o a quarantene fiduciarie) e un’inevitabile ricalendarizzazione delle prove per tali alunni; non ho seguito la gestione e organizzazione dell’Invalsi, ma i colleghi che l’hanno fatto sono stati sottoposti a uno stress piuttosto forte. Inoltre anche i ragazzi hanno svolto le prove con non poche difficoltà: spesso oberati di verifiche e interrogazioni al rientro, con l’elaborato per l’esame, spada di Damocle da svolgere tra aprile e maggio, con l’ansia di eventuali test di ammissione universitari in contemporanea. Va da sé che quindi alcuni di loro, tenuto conto che i risultati delle prove non avrebbero inciso sulla valutazione finale, non hanno profuso un impegno massimale, preferendo, giustamente, concentrarsi su altri fronti.
Dalle restituzioni degli studenti, inoltre, le prove di italiano erano alquanto lunghe e impegnative: diversi testi, letterari e non, di tipologia mista, con grafici da analizzare, per la cui comprensione ci sarebbe voluto ben più del tempo previsto; sembra inoltre che gli esperti dell’Invalsi non abbiamo mai letto le riflessioni della neuroscienziata cognitivista Maryanne Wolf sulla lettura a schermo, per cui rimando al saggio Lettore, vieni a casa, edito nel 2019 da Vita e Pensiero. Nell’articolo introduttivo allo studio, dal titolo Doppia lettura, uscito in inglese su «The Guardian», e poi in «Internazionale» il 12 ottobre 2018, la studiosa americana scriveva: «Diversi studi hanno anche dimostrato che negli studenti delle superiori e dell’università l’uso dello schermo può avere una serie di effetti preoccupanti sulla capacità di comprensione di quello che leggono. A Stavanger, in Norvegia, la psicologa Anne Mangen e i suoi colleghi hanno provato a verificare in che modo gli alunni delle superiori comprendono lo stesso testo su mezzi diversi facendo ai soggetti una serie di domande su un racconto la cui trama poteva interessare a qualsiasi adolescente (una storia d’amore e di sesso): Fenny mon amour. Metà di loro l’aveva letto su un Kindle e l’altra metà su carta. È risultato che gli studenti che avevano letto la versione cartacea lo avevano capito meglio di quelli che l’avevano letto sullo schermo, in particolare erano più capaci di ricordare i dettagli e di ricostruire la trama in ordine cronologico».
Ovviamente le prove svolte computer-based sono strategiche per ottenere i risultati con velocità e avere subito i grafici pronti (tutti noi ricordiamo i pomeriggi passati a inizio anni 2000 a inserire le risposte di ogni singolo alunno nella schermata dell’Invalsi), ma, dal lato studente, leggere un numero elevato di testi da schermo e dover rispondere subito ai quesiti senza aver la possibilità di leggere su carta, sottolineare, postillare, riduce la capacità di comprensione e analisi, benché in condizioni di pandemia l’uso della carta (magari da tenere in quarantena per 14 giorni…) sarebbe stato insensato. In soldoni, leggere e analizzare testi su carta (come si faceva qualche anno fa) non è lo stesso che farlo al PC; credo si possano fare le stesse considerazioni per le reading di Inglese, ma anche per i quesiti e problemi di matematica proposti agli studenti delle classi terminali. Inoltre io stesso, laureato in lettere, nel leggere alcune domande poste all’interno di queste prove mi sarei trovato in difficoltà, per la presenza di distrattori, risposte ambigue…insomma, mi servirebbe allenamento.
Allenamento è la parola giusta per descrivere la preparazione all’Invalsi e mi vengono in mente le riflessioni sempre argute del prof. Bertagna, durante le lezioni di Pedagogia del TFA e messe su carta nel volumetto Valutare tutti, valutare ciascuno: l’Invalsi dovrebbe rappresentare una valutazione di sistema quanto più affidabile, ma spesso i due piani, la promozione di obiettivi formativi (quanto più personalizzati) da parte dei docenti e il raggiungimento degli standard di prestazione (previsti da Invalsi) non sempre convergono; l’Invalsi si configura, a mio avviso, come un ente certificatore esterno le cui prove vanno a testare delle conoscenze e abilità specifiche più che delle competenze, come si sente spesso parlare sui giornali e online (si legga, per esempio, questo articolo di «Repubblica»). Per Giuliana Sandrone competente è «colui che risolve al meglio un problema, un compito o un progetto mobilitando tutte le componenti della persona, valorizzando le giuste collaborazioni con gli altri, tenendo conto della complessità teorica, tecnica e pratico-morale della situazione nel contesto dato e, infine, del giudizio esperto di chi è già stato riconosciuto competente nello stesso campo di azione» (cfr. Giuseppe Bertagna, Pierpaolo Triani, Dizionario di didattica. Concetti e dimensioni operative, La Scuola, Brescia 2013); non userei quindi questa definizione per chi supera brillantemente dei test invalsi; leggere e analizzare un testo non consiste in un problema complesso e neppure legato a un compito di realtà. Queste “abilità” di analisi, poi, sono poco promosse nella pratica scolastica, nelle unità didattiche o di apprendimento proprio perché, a mio avviso, non promuovono delle competenze complesse, quanto delle abilità disciplinari, per di più relative a un ambito della materia. Come fare quindi a ottenere dei buoni risultati nelle prove standardizzate? Forse modulando la progettazione didattica su queste prove…ma qui si passerebbe a un teach to test, a un teach to Invalsi difficilmente compatibile con le Indicazioni Nazionali, oltre che didatticamente e pedagogicamente criticabile.
Per esperienza, le prove Invalsi vanno quindi allenate: svolte con puntualità e regolarità nel corso dell’anno, corrette e discusse con gli studenti, analizzate nella loro composizione e nelle richieste…richiedono un impegno di tempo poco conciliabile con la scuola attuale e con le condizioni eccezionali in cui abbiamo operato da marzo 2020 (moduli orari di 50 minuti massimo, riduzione del monte ore settimanale, attività asincrone, obiettivi minimi e altre amenità).
Ritornando al paragrafo iniziale, lo scadimento delle competenze di base in uscita viene ascritto da giornalisti, esperti e pedagogisti alla DAD: ovviamente la sostituzione della didattica in presenza con una “a distanza” ha avuto ripercussioni estremamente negative in contesti poveri, con un’altissima dispersione scolastica, condizioni socio-economiche precarie, digitalizzazione fatiscente, ma non mi pare corretto istituire un nesso di causa effetto tra DAD e pessimi dati Invalsi: la scuola italiana già era carente in queste competenze di base e la pandemia ha dato il “colpo di grazia” a un sistema in sofferenza.
Per quanto riguarda la disciplina che insegno, ahimé, i manuali (anche del biennio) stanno cercando da tempo di conciliare “verifiche invalsi” e contenuti previsti dalle Indicazioni nazionali, ma secondo me gli esiti sono a volte discutibili: strutturare una verifica modellata sulle prove invalsi per un passo dell’Iliade, dei Promessi sposi o una poesia di Montale è un’operazione didatticamente discutibile per la complessità e polisemia di tali testi che rifuggono da risposte univoche, a risposta chiusa, a completamento (qui sotto alcuni quesiti tratti dalla poesia Nel giardino di Montale e usata dall’invalsi per un fac-simile di prova destinata alla classe terza). Si tratta, forse, del desiderio di “salvare capra a cavoli” degli editori, consapevoli che per il docente di lettere portare avanti l’itinerario letterario e linguistico insieme a una preparazione alle prove standardizzate risulta impossibile.

La variabile tempo è sempre cruciale e ne parlavo nell’articolo Insegnare letteratura nel quinto anno: prima le ore dedicate alla lingua e letteratura italiana, nei licei, erano 5 al biennio e, inoltre, la forte presenza del latino (ormai disciplina residuale e presente in modo “serio” al classico e allo scientifico tradizionale) consentiva di affrontare la riflessione linguistica (prevista ampiamente nelle prove invalsi) parallelamente con l’italiano, risparmiando un numero consistente di ore da dedicare all’educazione letteraria; adesso il monte-ore di italiano è di 4 ore, a prima vista tante, ma che nel biennio servono a completare quel “minestrone” rappresentato da un itinerario di apprendimento che spazia da Omero ai Promessi sposi, passando per le tipologie testuali, la grammatica della frase semplice e complessa, la narratologia e i rudimenti di poesia; nel triennio, poi, è tutto un correre verso la meta rappresentata dal Novecento. Non va dimenticato, poi, il tempo sottratto da PCTO (attività orientative, certo, ma che con le competenze di comprensione e analisi di testi hanno ben poco a che fare), da eventuali uscite didattiche e, da quest’anno, pure dall’Educazione Civica, materia trasversale a cui ogni disciplina deve contribuire. Pensare di riuscire a mantenere degli standard elevati nelle discipline di base (italiano, inglese, matematica) quando a livello di Ministero si sta potenziando tutto il contorno è una contraddizione che raramente emerge nelle analisi sui dati Invalsi.
Sento sempre screditare la DAD e apostrofare i suoi sostenitori come statali che vorrebbero continuare a insegnare in pigiama davanti a un PC, ma credo che ogni insegnante appassionato del suo lavoro non veda l’ora che la DAD sia un lontano ricordo e che sia lodata solo per la grossa spinta digitale che ha dato alla scuola italiana; in realtà sento raramente dire che senza la DAD si sarebbe creato un buco educativo difficilmente colmabile e che i ragazzi avrebbero perso completamente il contatto con compagni e professori, in periodi di lockdown e di restrizioni forti.
Il grosso problema è, secondo me, che si sta ancora valutando la scuola italiana basandosi su Indicazioni nazionali, obiettivi specifici di apprendimento, competenze, abilità e conoscenze che, ahimé, sono completamente saltate nell’anno e mezzo di pandemia che abbiamo vissuto; la scuola è riuscita a resistere e a mantenere i livelli pre-covid, a mio avviso, grazie ad alcune condizioni:
- forte spinta motivazionale da parte del corpo insegnante e degli studenti: senza la motivazione ad apprendere, in un contesto nebuloso come la DAD dei primi tempi, ogni strategia didattica ed educativa sarebbe risultata inefficace
- dotazione informatiche adeguate e disponibilità della scuola ad aderire ai progetti di finanziamento proposti dal Ministero e dai fondi europei
- continuità didattica del corpo docente, indispensabile per fornire dei punti di riferimento agli allievi e condurre in modo adeguato il recupero degli apprendimenti
- grandi competenze didattiche degli insegnanti nel modulare strategie di apprendimento, metodologie didattiche, promuovere una didattica per competenze e limitando i contenuti disciplinari ai grandi nodi concettuali delle discipline
- uso sapiente e non invasivo dello strumento digitale, visto come mezzo e mai fine nei processi di apprendimento.
Dove queste condizioni sono saltate o già prima della pandemia non sussistevano, il tracollo del sistema e lo scadimento dei livelli di apprendimento è sotto gli occhi di tutti.
Quali prospettive per il prossimo anno scolastico? L’aumento dei contagi da variante delta nella popolazione più giovane spinge a immaginare un altro anno in cui la “normale” attività in presenza sarà intervallata da periodi di DaD, di classi per metà a scuola e per metà a casa, di quarantene di singoli studenti causa covid. Temo fortemente che pure i prossimi anni saranno segnati dalle conseguenze di questa pandemia che non ha ripercussioni solo a livello scolastico, ma anche psicologico su tutto il personale coinvolto.
La soluzione ci sarebbe, ma credo che non sia contemplata per problemi di MEF: la progressiva riduzione del numero di studenti per classe, specie nella scuola secondaria di I e II grado, tenuto conto anche delle dinamiche demografiche che vedono una forte contrazione delle nascite. Il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) fa un accenno a una tale direzione, ma gli organici per il prossimo anno scolastico sono immutati e il numero di alunni per classe, nella secondaria, ancora compreso tra 27 a 30. Ogni docente, però, sa bene come per attuare la personalizzazione dei percorsi didattici, intraprendere iniziative di recupero delle competenze di base (di cui parla INVALSI) è necessario lavorare su numeri ridotti e non sicuramente su gruppi di 30 studenti, magari con all’interno alunni con BES. Classi di 20 studenti permetterebbero anche di ragionare sulla valorizzazione delle eccellenze, tasto poco toccato nei dibattiti nazionali, ma che andrebbe messo all’ordine del giorno, visto che rimanda al dettato Costituzionale (art. 34).
Troppo semplice, quindi urlare sui quotidiani “Abbasso la DAD!”, “Gli studenti non sanno scrivere e far di conto”, “I liceali hanno livelli da terza media!” quando la scuola italiana è stata oggetto da 20 anni a questa parte di tagli e di un depauperamento che ha di fatto scoraggiato i migliori laureati a tentare la strada dell’insegnamento e che ha creato un monstrum in cui le logiche corporativistiche (sindacati) hanno prevalso sull’innalzamento della qualità dell’insegnamento. Nel PNRR si fa riferimento alla “formazione sulla transizione digitale del personale scolastico” ma un professionista dell’istruzione non dovrebbe, per sua coscienza, aggiornarsi di continuo senza una norma che lo obblighi? Il secondo passo, quindi, dopo la riduzione del numero di alunni per classe nel II ciclo, sarebbe mettere al centro della scuola la figura dello studente e non dell’insegnante: la scuola non è un ammortizzatore sociale per i lavoratori del pubblico impiego, ma dovrebbe diventare il motore propulsore per la rinascita del Paese, si spera non solo legata a turismo e ristorazione…
Condivido ogni parola… È il primo commento serio che leggo sugli esiti Invalsi. Grazie! Angela
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Grazie Angela…ovviamente ognuno può parlare liberamente di scuola, ma secondo me bisognerebbe ascoltare di più la voce di chi ci vive dentro…
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Il problema dell’INVALSI nasce a monte, non si possono verificare delle competenze senza conoscere gli studenti di persona… Non dico di eliminare la prova, ma ricalibrarla, semplificandola ed evitando di appesantire il quinto anno. Sui titoli acchiappaclic dei giornali stendo un velo pietoso, dico solo che non aiutano a migliorare la percezione che ha l’opinione pubblica della scuola italiana: leggendo le ultime percentuali sembra che i docenti non preparino per niente i ragazzi, così si rafforza lo stereotipo dell’insegnante nullafacente!
Sulle proposte finali mi trovo d’accordo, avere classi da massimo 20 studenti sarebbe la soluzione ideale, se ci fate caso ci ritroviamo con classi da 30 ma per le uscite didattiche il rapporto docente-studente è 1 ogni 15…
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