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«La lingua italiana è dentro di te, ti appartiene. Impara a conoscerla e a usarla pienamente proprio come se fosse un organo del tuo corpo» (F. Sabatini, Lezione di italiano)
Tra i contenuti disciplinari per me più ostici da affrontare al biennio c’è sicuramente la grammatica italiana; se in latino, epica, letteratura italiana (soprattutto) e, financo, antologia so di essere in grado di padroneggiare bene la materia e di poter apportare “del mio” alla progettazione delle attività quotidiane, devo ammettere che non posso dire lo stesso per la trattazione degli argomenti di grammatica. Alla base credo ci sia una convinzione inconscia (tenetevi forte) che alle scuole superiori andrebbero aboliti l’ora (e il manuale) di grammatica, da concludere nel I ciclo, per virare verso la competenza testuale, affrontando produzioni diversificate e graduate, dalla scrittura creativa del biennio a quella funzionale nel secondo biennio, dedicando poi l’ultimo anno alla trattazione delle tipologie del Nuovo Esame di Stato. Provocazione a parte, credo davvero che cercare di trattare la grammatica come è presentata nella manualistica delle scuole superiori (in volumi di 500 e passa pagine) sia un’impresa titanica e destinata al fallimento.
Questa mia difficoltà nell’affrontare i contenuti di grammatica è riconducibile a una formazione universitaria lacunosa nel settore didattico-disciplinare L-FIL-LET/12: nel piano di studi di “Lettere moderne”, infatti, non era presente al tempo alcun esame di “Grammatica Italiana” e l’unico corso che ho frequentato con qualche attinenza con tali argomenti era “Linguistica generale” (“Storia della lingua italiana“, infatti, affrontava temi e questioni legate all’evoluzione diacronica dell’italiano e alle sue varianti diamesiche e diamesiche). Nei due corsi di Linguistica generale abbiamo studiato fonemi, morfemi, sintagmi: tutti argomenti interessanti ma che, a parte forse per la spiegazione dei temi della terza declinazione in consonante e vocale, risultano poco spendibili nella didattica di tutti i giorni. Così, sprovvisto di solide basi universitarie, dovevo basarmi sui ricordi liceali per impostare la mia progettazione di grammatica.
Quando fui chiamato nel 2010 per la mia prima esperienza da insegnante nella “mitica” scuola paritaria che cito spesso, mi venne affidata anche una cattedra di Italiano e Storia al biennio in un Liceo Sportivo, corso di studi che a quei tempi veniva scelto dagli studenti che volevano conciliare l’attività agonista ad alto livello con la frequenza di un percorso liceale. Tra i libri in adozione c’era il Sensini (cognome mitologico per noi insegnanti di lettere) e, una volta preso in mano, mi sembrò di ritornare tra i banchi del Liceo Scientifico “Andrea Fantoni” di Clusone, con il me quattordicenne che affrontava il suo percorso di scuola superiore. Le frasi erano le stesse: Amir, dopo 13 anni, invitava ancora a pranzo Sonia nel suo kebab; la madre di Luca stirava sempre le camicie a righe del papà, di cui bisognava indovinare il complemento: tutto era invariato.

In quei primi anni, vuoi per l’inesperienza, vuoi per il ruolo marginale che ricoprivo nella scuola, mi sono adeguato a quelle stanche consuetudini e al percorso che il manuale L’italiano da sapere mi proponeva, operando tuttavia delle selezioni e guardando con un misto di ammirazione e sospetto ai colleghi delle classi parallele che ogni mese programmavano una prova di grammatica diversa su nome, articolo, aggettivo, pronome e via dicendo. Io, invece, forse presagendo quella che sarebbe stata di lì a poco la mia formazione, sceglievo di focalizzarmi sul verbo, conscio delle difficoltà nelle scelte di modi e tempi che mostravano i miei studenti nei loro elaborati e di come la grammatica dovesse migliorare la testualità, non essere ridotta a cervellotica tassonomia; dopo il verbo, a cui dedicavo 3-4 mesi, passavo, in perfetta tempistica con quello di Venezia, al «carnevale dei complementi» (riprendo la celebre definizione di Michele Prandi nel suo Le regole e le scelte. Grammatica italiana, edito da UTET nel 2006), perché sia mai che i miei studenti nelle prove Invalsi non ne riconoscessero uno! Terminata la liturgia dei complementi, dedicavo il primo quadrimestre della classe seconda alla sintassi del periodo, “respirando aria più pura”: lì, anche senza un metodo preciso, facevo rappresentare frasi e le ore di grammatica diventavano più interessanti per loro e leggere per me. Terminata l’analisi del periodo ero finalmente «Puro e disposto a salire a le stelle».
Nel 2018, raggiunti il ruolo e una certa stabilità professionale, ho partecipato con entusiasmo al corso di formazione “Insegnamento delle materie letterarie nella scuola secondaria di I e II grado e nuove tecnologie. Università e Scuola in ricerca-azione” organizzato dal CQIA dell’Università di Bergamo: volevo conoscere altri modi di trattare la grammatica e, in effetti, ho trovato tre tutor che avevano un approccio rigoroso, scientifico, ma innovativo nei confronti della riflessione linguistica. Benché nel corso del progetto mi sia concentrato più sull’applicazione del modello valenziale al latino, ci sono stati forniti dei manuali in bibliografia per snellire e ripensare l’insegnamento grammaticale usando le acquisizioni della verbo-dipendenza. Per me epifanico è stato l’incontro con Francesco Sabatini e il suo Lezione di italiano, volume che dovrebbe far parte della biblioteca di ogni buon docente di lettere; il suo articolo poi Che complemento è, apparso su «La Crusca per voi» mi ha confermato l’insensatezza di quelle pratiche classificatorie che ho subìto come studente e che iniziavo a mal tollerare come insegnante.

L’articolo, liberamente fruibile in rete (clicca qui), metteva alla berlina la prevalenza, nella riflessione grammaticale, della semantica sulla sintassi e la “poca logica” di certe richieste, specie se mettevano in secondo piano quello che dovrebbe essere il vero obiettivo della grammatica, ovvero l’analisi della struttura di enunciati reali. Scrive Sabatini: «Nella tradizionale didattica linguistica con la locuzione “analisi logica” si vorrebbe indicare, giustamente, soprattutto la descrizione della struttura della frase, come rappresentazione di una costruzione di pensiero. Ma per condurre questa ben più calzante “analisi logica” bisogna tenersi decisamente sul piano della sintassi e imboccare una strada che ci porti a vedere propriamente come si legano tra loro, o comunque si dispongono nella frase, comparativamente tutti i suoi pezzi. Per raggiungere questo risultato occorre naturalmente procedere anche con alcuni principi di metodo e farsi guidare da un buon modello esplicativo».

Questo modello è, l’avrete intuito, quello valenziale: ho deciso quindi di applicare le convenzioni usate nella lingua latina anche all’italiano e di soffermarmi su pochi ma solidi concetti: la valenza del verbo e la struttura della frase, con attenzione particolare al suo funzionamento interno. Credo infatti inutile tediare gli studenti nella classificazione di aggettivi e pronomi, per non parlare di quella dei complementi, ma ritengo che la grammatica, specie alle superiori, dovrebbe tenere sempre presente la testualità: il verbo è l’asse portante di ogni enunciato e lo studente deve saperlo usare in modo preciso; la sintassi della frase semplice e complessa sono altrettanto importanti perché solo sapendo come è costruito l’edificio della frase, gli studenti sapranno fabbricare a loro volta case e palazzi costituiti da impalcature ben solide. Ma sapere come è costruito un edificio vuol dire capire i rapporti fra le parti, non di quale materiale è fatto l’intonaco che ricopre le pareti…
Così ho iniziato a leggere testi di grammatica valenziale applicata all’italiano: Esperimenti grammaticali di Maria Giuseppa Lo Duca, Che cos’è la grammatica valenziale di Cristiana De Santis, fino ad arrivare a Sistema e Testo di Francesco Sabatini (e collaboratrici), un manuale scolastico valenziale ma che, forse per un mio limite, ho trovato parecchio ostico e di difficile applicazione. Parallelamente ricercavo in rete spunti in quella miniera di materiale che è Academia.edu, trovando molti colleghi insofferenti della grammatica tradizionale e in cerca di nuove strade, scientifiche, ma che stimolassero la riflessione sulla lingua.
Così ho trovato liberamente fruibili online le slides di tre incontri di formazione condotti da Donatella Lovison, ricercatrice del GISCEL Veneto: il GISCEL è una garanzia per chi vuol approfondire questioni grammaticali e linguistiche e, infatti, nei tre incontri la studiosa si soffermava sull’applicazione pratica, nella didattica di tutti i giorni, dei concetti della verbo-dipendenza alla sintassi della frase semplice e poi complessa. Per ragioni di spazio, mi soffermerò solo sull’analisi del periodo, rinviando ad altre occasioni la trattazione della sintassi della frase semplice. Come vedrete si tratta di una spiegazione della sintassi del periodo rigorosa, ma che lascia anche molto spazio alla riflessione e manipolazione linguistica, all’interno di un modello scientifico, ma a maglie larghe. Ecco come la Lovison introduce la trattazione dell’analisi del periodo.

In questi anni di insegnamento ho capito che gli studenti hanno bisogno, specie in grammatica, di concetti chiari e di un insegnante che abbia senso pratico e non si dilunghi per ore ed ore a sbrodolare contenuti. La grammatica valenziale, modello estremamente sintetico ed efficace, mette poi in luce la ricorsività della lingua: così come esistono argomenti e circostanti, studiati in classe prima, allo stesso modo esisteranno subordinate argomentali e circostanziali, che svolgono il medesimo ruolo nella frase complessa. Così, al posto di trattare le subordinate come un elenco della spesa, è opportuno spiegarne la funzione e il loro rapporto con la principale; esse si dispongono in tre categorie: le argomentali (soggettive, oggettive, interrogative indirette, dichiarative, completive indirette) che sono fondamentali per chiarire il significato della reggente, che sarebbe “monca” senza la loro presenza; le circostanziali (o non-argomentali oppure extra-nucleari), ovvero tutte quelle subordinate che sono accessorie, libere (qui troviamo, p.e. la proposizione temporale, causale, ipotetica, concessiva, finale, consecutiva, comparativa, modale, avversativa e via dicendo). Un discorso a parte meritano le relative, dette attributive, dal momento che svolgono nella frase complessa la medesima funzione di un attributo e hanno quindi sempre un antecedente cui si riferiscono.
Argomentali | Circostanziali | Attributive |
Soggettiva Oggettiva Completiva Interrogativa indiretta Completiva obliqua Dichiarativa | Temporale Causale Ipotetica Concessiva Finale Consecutiva Comparativa Modale Avversativa, Eccettuativa Esclusiva Limitativa | Relativa restrittiva Relativa attributiva |
Uno dei vantaggi di questo approccio alla grammatica è che risulta molto più snello e permette di “vedere” i rapporti all’interno della frase complessa. Auspicabile sarebbe, infatti, che si affiancasse al laboratorio di analisi, quello di rappresentazione grafica. La grammatica delle dipendenze, infatti, potenzia molto il canale iconico e, per questo motivo, risulta estremamente inclusiva. Come sottolineano infatti Paola Iannacci e Paola Marinetto nell’articolo La rappresentazione grafica di frase e periodo: un problema, un’ulteriore difficoltà o un’opportunità, (clicca qui) uscito su «Italiano LinguaDue»: «Già dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso le teorie psicologiche riferite agli stili di apprendimento degli studenti hanno avuto un’interessante ricaduta sulla didattica. Parallelamente si sono analizzati anche gli stili di insegnamento, dei quali si è osservato che non possono non tener conto della varietà di presenze in una classe di modalità percettive e cognitive diverse. Sono state elaborate molte classificazioni che hanno evidenziato le caratteristiche degli stili cognitivi suddivisi in globali vs analitici, intuitivi vs sistematici, impulsivi vs riflessivi. […] Per esemplificare, quando costruiamo una rappresentazione grafica, mettiamo in gioco le peculiarità dello stile analitico perché analizziamo singole parole, sintagmi, frasi che disponiamo a diversi livelli e con diverse relazioni. In questo modo, osservando un elemento alla volta, facilitiamo l’apprendimento degli studenti “analitici”; alla fine, però, abbiamo un “tutto” che permette di favorire le caratteristiche dominanti dello stile globale».
Quindi, rappresentare graficamente frasi risulta uno degli strumenti più interessanti se si affronta l’analisi del periodo con metodo valenziale. Le convenzioni di Sabatini, però, come ho sottolineato negli articoli sulla verbo-dipendenza applicata al latino (specie qui), risultano assai macchinose con le frasi semplici composte da molti circostanti ed espansioni e vanno definitivamente in crisi con le frasi complesse. A titolo di esempio, metto qui sotto la rappresentazione di una frase complessa col metodo Sabatini. La frase è la seguente: “Quando viene l’inverno, mentre soggiorna in montagna, quando c’è la bufera, il mio amico Giulio, piazzandosi davanti al camino, legge, sedendo su una morbida poltrona, per far passare il tempo, lunghi romanzi di fantascienza di autori russi”.

Questa frase può essere rappresentata con precisione solo avvalendosi di un PC mentre, per esperienza personale, risulta assai complessa da disegnare; il mio timore è che avvalendosi delle convenzioni di Sabatini, ovvero del modello delle tre ellissi concentriche, si debba dedicare più tempo alla rappresentazione grafica che non alla riflessione sulla frase, vero focus di ogni discorso.
Ritengo quindi che nella pratica didattica quotidiana questa convenzione, scientificamente ineccepibile, debba lasciare spazio a modelli più semplici e funzionali, prendendo ovviamente spunto dalle indicazioni del Presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Una soluzione può essere quella di distinguere chiaramente, nella rappresentazione a grafico, le proposizioni argomentali (legate alla reggente da linea obliqua continua), da quelle circostanziali (legate da linea obliqua tratteggiata) e attributive (legate da linea tratteggiata verticale); le prime sono necessarie per completare il senso della reggente, mentre le seconde corrispondono ai complementi liberi, da collegare al nucleo con linea tratteggiata. Si perde un po’ di scientificità, ma si recupera tempo nella rappresentazione e non si perde di vista il principale motivo di queste operazioni: far comprendere agli studenti la struttura di un periodo e le sue relazioni logiche.
Consiglio quindi di lavorare nelle prime lezioni di grammatica su delle frasi modello usando, anche nelle presentazioni, dei colori differenti: la principale in rosso, la completiva in azzurro, la relativa in verde e la circostanziale in giallo. Si tratta di convenzioni che, ovviamente, non verranno riprese dagli studenti nel laboratorio di analisi (non stiamo facendo disegno artistico!) ma risultano fruttuose ed estremamente inclusive per alunni con DSA.

Stabilite queste convenzioni si studieranno le subordinate all’interno della loro categoria e, quindi, non come un elenco della spesa, ma in base alla loro obbligatorietà o accessorietà per completare il senso della reggente. Utili, in questa sede, sono anche esercizi di trasformazione da circostante a circostanziale e viceversa, ma anche da soggettiva a soggetto (e da oggettiva a oggetto diretto) e viceversa: tali esercizi di manipolazione linguistica (fruttuosi anche nella parte scritta per “asciugare” certi periodi ipertrofici) evidenziano bene uno dei tratti caratteristici della lingua italiana, ovvero la ricorsività, messa in luce in queste slides allegate al volume Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi.

Inserisco qui sotto alcuni schemi grafici di frasi complesse realizzate con metodo valenziale adattato dallo scrivente.



Per concludere, non credo di aver scoperto nulla di nuovo con tali rappresentazioni, ma ritengo che ogni nostra azione didattica dovrebbe seguire i criteri dell’accessibilità e della economicità; il modello valenziale risulta inclusivo, estremamente funzionale, in grado di far passare in un secondo dalla sintassi della frase semplice a quella della frase complessa; gli studenti, poi, non devono imparare come “foche ammaestrate” lunghi elenchi di complementi e subordinate, ma sono spinti a ragionare sulla loro funzione e valore. Soprattutto, da quando lo utilizzo, è come se tornassi a respirare la grammatica e la lingua italiana, dopo anni (da studente e poi docente), in cui l’ho vissuta in modo claustrofobico e oppressivo. Due aggettivi che non potevano sicuramente andare bene associati alla lingua più bella del mondo. Ringrazio quindi la grammatica valenziale per avermi tolto questa pesante cappa.
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Il problema dell’insegnamento della grammatica nella secondaria di secondo grado è che, dopo 13 anni di scuola, la conoscenza della lingua e delle sue regole dovrebbe costituire un prerequisito ma così non è. Non è possibile, con le poche ore a disposizione e tanti altri argomenti da trattare, riprendere tutta la grammatica quindi è essenziale fare delle scelte. Anch’io parto dal verbo e passo subito all’analisi logica (ovviamente iniziando dal verbo…). Le altre parti del discorso non le tratto in modo specifico ma posso riferirmi ad esse anche leggendo un passo di epica o un brano di antologia. Anche nella scelta del manuale mi sono sempre preoccupata maggiormente di verificare come venisse trattata la parte di grammatica testuale, molto più importante, per me, assieme al manuale di scrittura. Un testo molto valido e poco considerato (almeno stando alle adozioni che vanno per la maggiore) è “Virgola e punto” della Serafini. Lei tratta la parte relativa alla produzione scritta in modo ineccepibile, non per niente è autrice del manuale “Come si fa un tema in classe” che i docenti della mia generazione hanno letto dalla prima all’ultima pagina, non perché avessimo bisogno di imparare ma perché nessuno è mai davvero preparato a insegnare a scrivere. Aggiungo che anche il ripasso delle regole ortografiche è necessario (oggi più che mai…) e nemmeno la parte sul lessico deve essere trascurata. Appare chiaro che le 4 ore sono poche, dovremmo averne almeno 5 (ricordo che nella mia breve esperienza ai tecnici in effetti avevo 5 ore, com’è possibile averne solo 4 in un liceo?) perché alle scarse conoscenze della lingua che hanno gli allievi italofoni si devono aggiungere le enormi difficoltà di chi non è madrelingua. E se è vero che ci sono le ore extracurricolari di L2, non sono mai abbastanza. Infine faccio una riflessione personale sul mio operato: andrò in pensione con la consapevolezza di non aver mai insegnato l’italiano al biennio come avrei voluto. Per questo ho sempre preferito insegnare al triennio, pur con le difficoltà che ho dovuto affrontare negli ultimi anni per la preparazione lacunosa degli studenti in ambito linguistico. Del resto le lacune si portano avanti dalla scuola primaria passando attraverso la secondaria di primo grado e, a parte qualche eccezione di allievi e allieve veramente eccellenti, per la maggior parte la preparazione è carente e certamente non per colpa loro.
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Capisco la provocazione, e penso che in realtà non si recuperi molto al biennio. Forse si può chiarire qualcosa, ma le basi ormai sono state gettate, bene o male. Infatti mi piace pensare che al biennio SI LAVORI sulla riflessione linguistica, più che fare grammatica. Trovo interessante usare testi d’uso e non frasi costruite ad hoc, e analizzare la struttura sintattica dei testi narrativi, poetici, argomentativi che affrontiamo. Per quanto riguarda il modello valenziale, per un mio limite di formazione mi è più difficile applicarlo nella frase semplice che nell’analisi del periodo.
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Devo dire che mi hai convinto. Mi piace moltissimo il metodo valenziale sull ‘italiano – molto più che sul latino. Forse perché la manipolazione linguistica mi trasmette l’immagine di lezioni più giocate, vissute e sperimentate nel concreto. Apprezzo! Ovviamente, come ben sai, il mero nozionismi grammaticale lo ABORRO.
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