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Una poesia teologica indigesta
Tra i contenuti didattici più ostici per il docente di italiano c’è sicuramente il Paradiso di Dante, vera e propria «teologia in versi» secondo il giudizio di Benedetto Croce, terza cantica della Commedia in cui il poeta fiorentino tenta un’impresa impossibile, ovvero narrare il viaggio nel Paradiso celeste, che culmina con la descrizione della visione di Dio. Il Paradiso può essere definito a ragione una «poesia teologica», in quanto le spiegazioni che Beatrice impartisce a Dante vengono offerte a dei lettori coraggiosi, ai pochi che sono in grado di gustar «il pan de li angeli» (Par. II 11); cambiano ovviamente i destinatari, perché se le prime due cantiche, soprattutto l’Inferno, potevano essere apprezzate anche da un pubblico di cultura popolare, attratto e divertito dalle situazioni grottesche e dai continui e sanguigni richiami alla vita terrena, ora l’argomento è cambiato: la lettura del Paradiso è riservata a un’aristocrazia intellettuale di persone colte, dotate di conoscenze retoriche e soprattutto filosofico-teologiche. La «piccioletta barca» di Par. II, 1 non è più sufficiente: i lettori vanno incoraggiati perché «l’acqua che io prendo già mai non si corse» (Par. II 7): Dante si accinge a un’impresa giudicata impossibile.

Ultimamente sembra un’impresa impossibile pure per gli insegnanti del XXI secolo cercare di fornire agli studenti del quinto anno una trattazione “dignitosa” del Paradiso, tra monte-ore delle discipline sempre più eroso dai Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, con l’ultima voce che occuperà una parte consistente delle attività per guidare gli studenti in uscita dal quinquennio e il Novecento letterario che incombe come un avvoltoio, specie se l’Esame conclusivo sarà strutturato ancora nella forma del colloquio a partire da un materiale che si presta a una trattazione interdisciplinare. Il Paradiso è percepito come una sorta di “sassolino” da togliersi in quinta, vista la sua scarsa attinenza con tutto il contorno che caratterizza l’ultimo anno di scuola superiore.
Ricordi universitari: il Dante della Prof.ssa Villa
Devo premettere di avere una buona conoscenza della terza cantica: nell’anno accademico 2005-2006 avevo frequentato un corso monografico di 30 ore sul Paradiso con la Prof.ssa Claudia Villa, insigne dantista ora di stanza alla Normale di Pisa.

Le sue lezioni, per riprendere le parole di Ungaretti nei riguardi dei corsi liberi di Henri Bergson al Collège de France, erano «acqua trasparente, cristallo» e il ridotto uditorio (circa 30 studenti che avevano scelto il corso di letteratura italiana 1B) le rendeva ancora più speciali. La Prof.ssa arrivava con la sua edizione tutta spiegazzata della Commedia di Scartazzini-Vandelli e le due ore di lettura e commento dei canti del Paradiso erano contraddistinte da riflessioni sulla biblioteca di Dante, sulla rielaborazione del mito e sul rapporto tra letteratura e arti figurative, con il ricorrente riferimento all’oraziano Ut pictura poësis. Da ingenuo apprendevo, insieme ai miei compagni di Università, tutte queste straordinarie acquisizioni, rimanendo estasiato da un modo di parlare di Dante diverso da quello del noioso docente di liceo, scoprendo poi che si trattava di ricerche della Prof.ssa su codici manoscritti e pubblicate, in quegli anni, su «Studi danteschi» e altre riviste specialistiche. Per chi vuol approfondire il Dante della Prof.ssa Villa, consiglio un volume a me caro, La protervia di Beatrice. Studi per la biblioteca di Dante, in particolare modo il cap. X intitolato Corona, mitra, alloro e cappello: per Par. XXV, in cui si propone per il «cappello» (Par. XXV 9) la fonte terenziana e il suo pileum libertatis.

Un insegnamento centrato sul docente e soluzioni poco convincenti
Così, nei primi anni da insegnante, in ragione dell’importanza che la cantica ricopriva per me (e qui sta l’errore del docente principiante), dedicavo un’ora a settimana alla lettura di Dante, anche in classe quinta, selezionando quei canti che erano presenti sull’antologia, mantenendo fermi gli imprescindibili: Par. 1, 3, 6, 11, 12, 17 e 33. In una lezione frontale old style, ogni canto veniva preceduto da una lunga introduzione che ne facilitasse la comprensione; seguiva poi la lettura dell’intero canto e un commento puntuale terzina per terzina. Va da sé che un modulo simile occupava circa 15-16 ore, comprensive di verifica e non era sostenibile né per loro né per me. Questo perché affrontare il Paradiso non è come spiegare il presente indicativo di sum o la differenza tra personaggio piatto e a tutto tondo in prima superiore: il mondo di Dante è intriso di religione e il commentatore moderno troverà degli ostacoli lui stesso per presentare questa materia a ragazzi del XXI secolo, specie in indirizzi dove la componente mitologica è assente e l’italiano una disciplina di serie B, quando non C.
Come fare dunque? La soluzione dell’Associazione degli Italianisti Sezione Didattica è quella di anticipare il Paradiso in quarta, creando un modulo unitario con il Purgatorio e dando vita a percorsi per temi anche verticali. Personalmente sono scettico sulla proposta, per ragioni di tempo (la quarta è anno di visite d’istruzione lunghe e di tirocinio aziendale nel PCTO) e perché, anche se potrei motivarlo, sono dubbioso sul mancato inserimento della terza cantica in classe quinta, specie se i ragazzi verranno esaminati da un commissario esterno. La seconda soluzione è risolvere la questione con un modulo a inizio anno, a febbraio-marzo o a fine anno sul Paradiso, selezionando dei gruppi di versi a cui far riferimento, evitando la logica del canto come portatore di unità di senso per concentrarsi invece su incontri memorabili. Una logica del genere fa sì che un corpo estraneo non venga più percepito come tale e si configuri come una parentesi nella corsa sfrenata verso il Novecento.

Negli ultimi tre anni, però, in ragione anche delle modalità di svolgimento del colloquio, che tendono a far “sparire” il Paradiso in quanto difficilmente collegabile, nella logica assurda di questa parte di Esame, agli altri nodi concettuali delle discipline (ne scrivevo con ironia mista ad amarezza su Laletteraturaenoi), ho deciso di enfatizzare l’attualità del Dante del Paradiso cercando, nella programmazione che adotto, impostata per generi (ne scrivevo qui), di intrecciare qualche tema su cui poter innestare dei polloni danteschi. Mi si dirà che Dante non va appiattito sul presente e che la lezione della Commedia viene in questo modo travisata, ma credo, seguendo l’ermeneutica, che dei classici vada colto il senso per il lettore, in questo caso studenti di 18 anni, più che quello per il docente.
Vediamo quindi ora come intrecciare il Paradiso con dei percorsi per generi e temi del Novecento. Dal momento che l’articolo sul blog non è un contributo in rivista, cercherò di essere breve, per non annoiare il lettore del web, notoriamente impaziente, e di delineare due (dei tanti) intrecci che possono legare il Paradiso al percorso di letteratura di quinta.
Primo intreccio: le donne di Dante, tra violenza e trasgressione.
Le figure femminili nella Commedia ricoprono uno spazio molto importante, dettagliatamente analizzato da Marco Santagata nel suo saggio Le donne di Dante, edito per Il Mulino. Il percorso all’interno del Paradiso che propongo vuole però analizzare le donne vittime di violenza, per legare la prospettiva dantesca con quella che emerge, per esempio, in molte novelle di Verga, specialmente in Drammi intimi e Vagabondaggio (recupera il percorso qui su Academia e qui sul blog).

Quali canti e figure selezionare? Dal mio punto di vista due canti e tre figure: Paradiso III e IX, con i personaggi di Piccarda Donati, Costanza d’Altavilla e Cunizza da Romano.
Figlia di Simone Donati, Piccarda era sorella di Forese, l’amico di gioventù del poeta, e di Corso, il violento capo della parte Nera fiorentina, nonché cugina della moglie di Dante, Gemma Donati. La famiglia Donati apparteneva, dunque, alla sfera privata della vita di Dante, alla sua giovinezza: la monacazione di Piccarda dovette colpire Dante, che si avviava alla maturità umana e poetica, ed un’offesa dovette apparirgli il rapimento dal convento francescano di S. Chiara a Firenze. Corso infatti, probabilmente nel decennio compreso fra il 1283 ed il 1293, periodo in cui ricoprì varie cariche pubbliche a Bologna, costrinse la sorella a sposare Rossellino della Tosa, stringendo, così, una parentela molto vantaggiosa per gli interessi della famiglia e per la personale carriera politica. Piccarda fu costretta a infrangere i voti; come sottolinea Santagata, «le parole dedicate a una Donati […] alludono contemporaneamente ai soprusi e alle violenze politiche perpetrate da quella famiglia» (M. Santagata, Le donne di Dante, Il Mulino, Bologna 2021, p. 57). Il voto rotto e incompiuto di Piccarda ci parla non soltanto di un itinerario spirituale di perfezione interrotto, ma della violenza di un’epoca, e, più ancora, dell’impotente e frustrata protesta delle donne contro tale violenza. Si tratta di donne violentate, che non hanno protestato, denunciato e che, perché beate, neppure ora recriminano. Piccarda è quindi una sorta di “martire” del 25 novembre ante litteram.
Sempre vittima di un sopruso politico è la seconda anima che incontra Dante, Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia, lo stupor mundi. Nei vv. 109-120, Dante mostra di accettare una leggenda nata in ambiente guelfo secondo la quale l’anticristo, con cui si identificava Federico II, doveva nascere dal parto avanzato di una monaca “smonacata”. Costanza era figlia del normanno Ruggero II d’Altavilla, il primo re di Sicilia, e nacque nel 1154, poco dopo la morte del padre. Trascorse l’infanzia a Palermo e rimase molto a lungo nubile, fino a 32 anni, un’età, per l’epoca, davvero avanzata. È possibile che proprio da ciò sia nata la voce della monacazione di Costanza, resa immortale dai versi danteschi: si tratta, probabilmente, solo di un’invenzione posteriore, che poi fu accreditata in vario modo. A partire dal secolo XIV, infatti, vari monasteri si contesero l’onore di aver ospitato tra le loro mura l’imperatrice, come monaca se non addirittura come badessa. Per Dante Costanza fu vittima di una violenza che le impedì di continuare la sua vita monacale: «Ma poi che pur al mondo fu rivolta / contra suo grado e contra buona usanza, / non fu dal vel del cor già mai disciolta» (Par. III 115-117).

Straordinariamente moderna è invece la figura di Cunizza da Romano, collocata da Dante nel cielo di Venere: nacque intorno al 1198 e sposò nel 1222 Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona. Il matrimonio politico aveva lo scopo di suggellare la pace tra le due famiglie, ma in seguito venne rapita, su disposizione del fratello Ezzelino e sempre per motivi politici, da Sordello da Goito e ricondotta a Treviso. Vittima di violenza, ma avvolta da rumors quasi moderni: alcuni la definivano una donna immorale e dissoluta (“magna meretrix” la definirà un commentatore dantesco), altri una dama ligia ai precetti dell’amore cortese, che in vecchiaia si dedicherà a opere di misericordia.
Secondo intreccio: il tema dell’esilio. Dante come precursore dei grandi esuli delle dittature del Novecento
Tra i canti più interessanti del Paradiso ci sono quelli dal XV al XVII in cui Dante incontra l’avo Cacciaguida nel cielo di Marte; qui giungono a compimento tutte le profezie della Commedia perché a Dante viene preannunciato l’esilio e la gloria eterna grazie alla Commedia. Celebre è l’immagine del pane salato per il fiorentino abituato a quello sciapo.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. (vv. 55-60)
Il tema dell’esilio permette di collegare il Paradiso al Novecento e, in particolare, all’età dei totalitarismi, al Fascismo e al Nazismo, sicuramente gli argomenti più appassionanti del percorso di apprendimento di storia. Durante il periodo più buio del XX secolo, infatti, si creano delle condizioni che mettono in moto delle dinamiche simili a quelle che vissero Dante e le altre due corone.
Il tema dell’esilio, con tutte le sue declinazioni (rappresentazione dell’esilio, produzione letteraria dall’esilio, condizione di esule vissuta dallo scrittore, rappresentazione dell’Italia come terra dell’esilio) costituisce d’altra parte una caratteristica peculiare della letteratura italiana medievale, tanto che Alberto Asor Rosa, nel suo saggio La fondazione del laico, con cui si apre il capitolo tematico Questioni, del 1986, scrisse che la condizione «di esule, di apolide, di refoulé» è un parametro comune di una situazione culturale ed intellettuale che è stata alla base della produzione letteraria dei “padri fondatori” della nuova letteratura volgare, ovvero Dante Petrarca e Boccaccio, che vivono tre condizioni di esilio, dai tratti diversi, ma sempre caratterizzate dalla lontananza dalla patria. «Exul inmeritus: esule senza colpa. Così Dante comincia a riferirsi a sé stesso a partire partire dalla missiva a Oberto e Guido conti di Romena, in cui si scusa di non aver partecipato ai funerali del loro zio, Alessandro, perché, “a patria pulsus et exul inmeritus”; non si è potuto permettere nemmeno le spese del viaggio, schiacciato com’è dall’indigenza dell’esilio» (R. Bruscagli, Dante “exul inmeritus”: la violenza della legge, «La Ricerca Loescher», 01.08.2021); la caratteristica di “esule senza colpa” è così sentita da Dante da configurarsi come una firma, come ci spiega bene il Prof. Bruscagli nell’articolo sopra citato (recuperabile qui).
Se vediamo quindi Dante e il Paradiso come archetipi, nell’ottica dell’attualizzazione, non si può che far riferimento a intellettuali del Novecento che abbiano o vissuto l’esperienza dell’esilio oppure che lo abbiano trattato nelle loro opere. Per avere un quadro della situazione ed evitare il ricorso a studi specialistici difficilmente didattizzabili (uno fra tutti il numero monografico del «Bollettino di italianistica», coordinato dallo stesso Asor Rosa, dal titolo significativo: La letteratura italiana e l’esilio), mi sono avvalso negli anni di articoli su quotidiani e di vari contenuti su Academia (tra cui questo di Massimo Lucarelli dal titolo Frontiera ed esilio nel primo Ungaretti), che tematizzano l’esilio; fruttuoso, non tanto per il contenuto, in sé ridotto, quanto per le porte che può aprile, è l’articolo di Giorgio Pressburger, dal titolo Dante vede il suo esilio. E diventa così il precursore di poeti, artisti e scienziati costretti alla fuga, uscito sul «Corriere delle Sera», 2004 (recuperabile qui)
I versi di Dante, scritti settecento anni fa, non ci parlano più soltanto del poeta fiorentino, del suo amaro destino, della sua solitudine lontano dalla famiglia e dagli affetti, ma, stavolta lo si può ben affermare, «profeticamente» di noi, dei nostri padri, dei nostri nonni e bisnonni che vissero il periodo dei totalitarismi. Ci parlano della nostra vita di uomini appartenenti al secolo che ha accumulato il 90 per cento del sapere umano di tutti i tempi. Anche in questo Dante è stato un grande precursore, e, chiunque abbia avuto un destino simile al suo, lo può testimoniare: Sigmund Freud, Stefan Zweig, Béla Bartók, Arnold Schönberg, Aleksandr Solgenitsin, Marc Chagall, Giorgio de Santillana, Attilio Momigliano, Igor Strawinsky Vladimir Nabokov, Paul Celan, Ismail Kadaré, Sandor Màrai, sono soltanto alcuni nomi dei tanti che potremmo elencare qui: ma purtroppo la lista continua anche oggi, con tutto ciò che avviene nel mondo. Oggi, anzi, la condizione di esiliato, di fuoruscito, di straniero ovunque, di emigrato persino dalla propria lingua madre verso un’altra lingua, pare contrassegnare il destino dell’artista» (Giorgio Pressburger, Dante vede il suo esilio. E diventa così il precursore di poeti, artisti e scienziati costretti alla fuga, «Corriere delle Sera», 2004).
In un’ottica di Educazione Civica, si possono dipartire delle strade proficue sul ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, sulla necessità di partecipare alla discussione politica oppure di “fare parte per sé stesso”? «Dante […] si sente sostenuto dalla sua profonda, infallibile fede cristiana [e] attribuisce a se stesso quasi una missione profetica. Da qui deriva la forza irresistibile del suo poema. Anche nel Novecento abbiamo avuto scrittori, poeti che si sono attribuiti questa forza, hanno esposto agli occhi del lettore il loro “io” dilatato all’infinito; la loro verità affermata con perentoria tracotanza. Non voglio fare paragoni, il lettore trovi tra i suoi autori i nomi di costoro. Ma quali sono stati i risultati? Il dilagare del nazismo, l’orrore dei lager, l’accusa dei sopravvissuti, e la fuga dei colpevoli “da un castello all’altro”. Anche su questo punto dunque, c’è di che meditare». (G. Pressburger, art. cit.).
Un nuovo senso per il Paradiso
Sono domande di senso che non possono lasciare indifferente la classe e danno quindi una motivazione nuova ad addentrarsi (a piccole dosi, come è giusto per un’opera ostica) in quel Paradiso che è anche «teologia in versi», ma da cui possono estrarsi delle “perle” che possono brillare anche nel 2023. Certo, non è semplice proporre la poesia della terza cantica a studenti digiuni di conoscenze religiose, ma credo che sia una sfida da intraprendere con coraggio e convinzione. L’esperienza dei due intrecci (il primo proposto a novembre e il secondo ad aprile) e la loro restituzione dei ragazzi all’Esame orale, con molti riferimenti nella parte dei cosiddetti “materiali”, mi ha confermato la bontà della proposta. Forse i dantisti storceranno il naso, ma credo che la letteratura potrà continuare ad avere un ruolo solo se si insisterà sul suo significato per il lettore, coinvolto nel processo di interpretazione e attualizzazione. Altrimenti diventerà specialismo da accademia e contenuto da “subìre” in classe.
Mi piace molto questa impostazione, un saggio compromesso tra il nostro amore per Dante e la fatica di affrontare la cantica più difficile nell’anno più difficile.
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Apprezzo il taglio divulgativo dei tuoi articoli, Matteo, anche perché dai comunque ottimi spunti di approfondimento per noi docenti.
Ricordo i corsi della professoressa Villa, ma avendone frequentato uno al primo anno non ero ancora pronto per confrontarmi con uno stile così colto qual è il suo. Ora se riprendo in mano gli appunti del 2008 apprezzo sicuramente.
Facendo mea culpa devo dire che continuo a fare l’ora dantesca anche in quinta, cerco di attualizzare e mi affido anche alla ricca iconografia ispirata alla Commedia (Gabriele Dell’Otto di recente ha realizzato delle tavole bellissime). L’approccio tematico però mi attira non poco, specie quello che proponi sulla figura dell’esule. In quinta è l’ideale, se penso alla letteratura russa ma anche a quella tedesca c’è l’imbarazzo della scelta.
Per quanto riguarda la difficoltà della cantica (in quanto intrisa di teologia) penso che non sia un male che anche studenti diciottenni con poche basi di religione si cimentino con qualche concetto “superiore”.
Resta il fatto, come sottolinei nel finale, che la Commedia è sempre attuale perché parla dei mali che interessano l’Uomo alla radice.
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Grazie prof degli spunti, originali e costruttivi. Ogni anno trovare una quadra sul paradiso è sempre un problema. Grazie ancora e buon lavoro.
Cinzia Cogoni
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