Fra le opere della letteratura italiana a me particolarmente care c’è la Mirra di Alfieri, uno degli autori più interessanti, profondi e ricchi di stimoli per docenti e studenti, ma che però mi è capitato raramente di portare in classe; nel 2019-2020, in piena pandemia, con una classe quarta davvero eccellente (si sarebbero diplomati l’anno successivo in 10 su 20 con più di 90…) ho però introdotto nell’itinerario di apprendimento il più importante autore di tragedie della letteratura italiana, cercando di rendere “didattica” un’opera a prima vista ostica e di difficile comprensione, quasi scoraggiante.
Il mio amore per Alfieri nasce da un corso che ho frequentato in Università nel lontano anno accademico 2005-2006 e che si intitolava Il dialogo con i classici attraverso la tragedia: il prof. Luca Carlo Rossi, infatti, aveva scelto proprio la tragedia come genere per far comprendere a noi studenti del corso triennale in Lettere come lavora l’intertestualità; i testi selezionati (il Re Torrismondo di Tasso, la Mirra di Alfieri e l’Adelchi di Manzoni) sono in realtà tre opere che affollano poco (o nulla, per quanto concerne la tragedia tassiana) le antologie scolastiche ma che, a mio avviso, risultano particolarmente fruttuose per instillare anche negli studenti (specie di indirizzi liceali) una sensibilità verso il dialogo tra autori e opere del corso di studi. Anche se ad alcuni sembrerà un’operazione erudita, credo che attivare “la memoria letteraria” risulti in realtà coerente con il “Profilo culturale, educativo e professionale dei Licei”, dove si legge che, al termine del quinquennio, lo studente, dovrà «Conoscere gli aspetti fondamentali della cultura e della tradizione letteraria, artistica, filosofica, religiosa italiana ed europea attraverso lo studio delle opere, degli autori e delle correnti di pensiero più significativi e acquisire gli strumenti necessari per confrontarli con altre tradizioni e culture» (Allegato A D.P.R. 89 del 15 marzo 2010).
Non è mia intenzione scrivere un saggio da rivista sugli echi classici e, soprattutto, danteschi nella Mirra, quanto dare una chiave di lettura dell’opera che mostri come la memoria degli autori precedenti sia ben visibile nell’Alfieri, attraverso la selezione di passi significativi, disponibili anche al confronto in classe se questa è impostata, secondo il magistero di Romano Luperini, come comunità ermeneutica. Scrive infatti il critico su «Allegoria»: «Nella classe come comunità ermeneutica il professore rappresenta il momento di autorità e di meditazione, che disegna e delimita il campo interpretativo e definisce, raccogliendo anche i diversi contributi degli studenti, il ventaglio dei diversi significati possibili di un testo, il suo valore, la sua eventuale attualità. Deve essere dunque non un tecnico neutrale né un tuttologo generico, ma un uomo di cultura umanistica esperto di letteratura». (R. Luperini, La classe come comunità ermeneutica, «Allegoria», n. 28, 1998, pp. 106-107, consultato online). Parole da tenere sempre a mente visto che la biblioteca del conte Monaldo è ormai esplosa e risulta impossibile per il docente padroneggiare tutti i contenuti; il suo ruolo dovrà quindi essere quello di guida in un mare vorticoso di sapere e di informazione, di “accompagnatore” del processo di interpretazione e “suggeritore” di fonti autorevoli, oltre che di metodi di lavoro flessibili, ma rigorosi.
Dunque, la Mirra: anzitutto, per presentare l’opera, bisognerebbe assicurarsi che sull’antologia in adozione siano presenti almeno due passi significativi, ma l’eventuale problema è facilmente risolvibile se si considera che su Liber liber è presente il testo integrale in formato PDF, che consta di sole 41 pagine. Come passi imprescindibili ci sono, a mio avviso, sicuramente il dialogo tra Mirra e la madre Cecri, nell’atto IV, così come l’intero atto V (composto, com’è noto, da soli 220 versi e quindi facilmente leggibile in maniera integrale); anche il dialogo tra Perèo e Mirra dopo l’annullamento delle nozze è sicuramente interessante per il “non detto” della fanciulla e l’eros taciuto.
L’opera, com’è noto, è dedicata a Louise Stolberg, più conosciuta come contessa d’Albany e, per una efficace introduzione alla tragedia, è opportuno leggere il sonetto a lei dedicato, che precede l’atto I, cercando, in sede di spiegazione, di soffermarsi su alcuni termini, che mostrano le evidenti fonti dell’opera e come Alfieri abbia ben presente Dante e Tasso, oltre ad Aristotele. Il folle del v. 4 potrebbe infatti evocare il folle volo di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno, mentre il fregiar reca forse eco del Proemio della Gerusalemme liberata («e tu perdona / s’intesso fregi al ver», canto I, ottava 3, vv. 6-7). Ma è nei versi successivi che si manifestano termini desunti dalla Poetica di Aristotele, punto di riferimento per chi voleva elevare la tragedia italiana al modello greco: quell’orrendo amore e il dolore sono una ripresa evidente del “terrore e della pietà” che deve colpire, secondo la Poetica, lo spettatore alla vista delle sventure della protagonista, definita infelice, con una tessera virgiliana, che evoca l’infelix Dido, la cui vicenda, com’è noto, si conclude allo stesso modo di quella di Mirra, ovvero con il suicidio della protagonista su una spada.

Nella lettura, però, si manifesta in modo evidente una fonte celeberrima per la Mirra, ovvero il canto XXXIII dell’Inferno, con al centro la vicenda del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri che si conclude, secondo illustri commentatori, come Gianfranco Contini, con l‘antropofagia, ossia l’assunzione da parte del conte delle carni dei figli e dei nipoti (sulla questione, tra le più controverse della letteratura mondiale, si legga il saggio di Enrico Malato La “morte” della pietà: «E se non piangi, di che pianger suoli. Lettura del canto XXXIII dell’Inferno», disponibile online sul sito dell’Indire). Si tratta, a ben vedere, della messa in versi di due tabù universali dell’umanità, ovvero il cannibalismo e l’incesto che vengono presentati da Dante attraverso la figura della reticenza («Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno», Inferno XXXIII 75), mentre Alfieri, nel suo Parere sulla “Mirra” sottolinea che se l’opera non si intitolasse con il riferimento al mito ovidiano (cfr. libro X delle Metamorfosi, vv. 298-502) nessuno potrebbe intuire l’amore incestuoso e contro natura: «Da nessuna parola della tragedia, fino all’ultime del quint’atto, non potranno certamente trar prova che questa donzella sia rea di amare piuttosto il padre, che di qualunque altro illecito amore […]. Ma avendo io voluta chiamar Mirra, tutti sanno tal favola, e tutti ne sparleranno, e rabbrividire d’orrore già prima di udirla».

Le tessere dantesche, in particolare quelle relative al canto XXXIII dell’Inferno, si dispongono un po’ nel corso di tutta la tragedia e, per facilità di comprensione e scopi didattici (i miei e dei lettori-insegnanti), le ho riassunte in questa tabella dove al testo alfieriano sono accostati le terzine dantesche. Risulta interessante notare come gli echi danteschi non siano prerogativa di un unico personaggio, ma Alfieri faccia “parlare” tutti i protagonisti con i termini usati dal conte pisano e dai congiunti rinchiusi nella Torre della Muda.
Alfieri, Mirra EURICLEA D’amor non nasce Il disperato dolor suo (Atto I, vv. 119-120) CECRI Tu mi disperi… (Atto I, v. 150) PEREO Ma di dolor pieno, e di morte, il viso Disperata la mostra (Atto II, v. 55-56) CECRI Diletta Figlia, chi può non pianger al tuo pianto? (Atto III, vv. 102-103) CORO se stessa roda la feral Discordia (Atto IV, v. 175) MIRRA Tu questa vita misera, abborrita Davi a me già; tu me la togli (Atto IV, vv. 223-224) CINIRO E ad ingoiarmi il suolo non si spalanca (Atto V, vv. 201-203) | INFERNO XXXIII 5-6 Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme INFERNO XXXIII 40-42 Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? INFERNO XXXIII 9 che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo INFERNO XXXIII 61-63 “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia” INFERNO XXXIII 66 ahi dura terra, perché non t’apristi? |
Non sorprende, d’altra parte, che nella Mirra sia presente in maniera così pervasiva la memoria dantesca: come riporta nella Vita, Dante è tra i primi autori su cui Alfieri inizia, nel 1775, la propria educazione linguistica e letteraria: «Ma carissima mi riuscí la mia nuova compra, poiché mi misi d’allora in poi in casa per sempre que’ sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c’è; dico Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all’età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell’Ariosto nella prima adolescenza essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo» (V. Alfieri, Vita, Epoca terza. Giovinezza, capitolo 12). Come riporta l’Enciclopedia dantesca, Alfieri «dell’Inferno predilige gli episodi che saranno cari al gusto romantico (per intero quelli di Francesca e di Ugolino)»; in questa sede si è analizzato l’eco del canto di Ugolino, ma sarebbe interessante anche vedere come la poesia di Petrarca e il canto V dell’Inferno siano utilizzati per creare il personaggio di Mirra. Ricorrono infatti nella tragedia termini come sospiri (4 occorrenze nella tragedia e quasi tutti riferiti all’infelice figlia di Ciniro), che riecheggiano i celeberrimi versi di Inferno V.
V. Alfieri, Mirra | Dante, Inferno V 118-120 |
Giá l’afflitto tuo volto, e i mal repressi tuoi sospiri, mi annunziano… (Atto I, scena I) I suoi sospiri eran da prima sepolti quasi; eran pochi; eran rotti (Atto I, scena I) Il volto, e gli atti, e i suoi sospiri, e il suo silenzio, ah (Atto I, scena I) Ai detti, agli atti, ai guardi, anco ai sospiri, par che la invasi orribilmente alcuna sovrumana possanza. (Atto III, scena III) | Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?» |
Ma la memoria di Inferno V, un canto particolarmente caro ai Romantici e ad Alfieri, non si ferma sicuramente qui: nella schiera dei lussuriosi descritta da Dante si trova una “sorella di Mirra”, ovvero quella Semiramide che, «A vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito fé licito in sua legge, / per tòrre il biasmo in che era condotta»; la leggendaria regina assira è assurta a exemplum di lussuria, dal momento che, seguendo la fonte rappresentata dalla Storia contro i pagani di Paolo Orosio, è dipinta come colpevole di incesto, avendo avuto un rapporto amoroso con il figlio avuto dal marito Nino. Giova ricordare infine come Mirra stessa sia collocata da Dante nel canto XXX dell’Inferno, tra «i falsificatori della persona in quanto trasse fraudolentemente in inganno il padre falsificando sé in altrui forma» (Mirra, in Enciclopedia dantesca, consultazione online qui).
Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica. 39
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma
Inferno XXX 37-41.

Sulla scorta di questo “scambio di persona”, rileggendo la tragedia per preparare le lezioni in classe, ho intravisto anche delle tessiture tassiane; Tasso, come spiega sempre Alfieri nella Vita, opera imprescindibile per capire il pensiero dell’autore, viene percepito dall’astigiano come lettura più agevole rispetto a quella del Sommo Poeta: «io leggeva con sí pazza attenzione, volendo osservar tante e sí diverse e sí contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea piú quello ch’io avessi letto, e mi trovava essere piú stanco e rifinito assai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l’occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura; e cosí tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli tutti, e v’impiegai forse un anno». (V. Alfieri, Vita, Epoca Quarta. Virilità, capitolo 2). L’eco tassiana più evidente credo si trovi nell’atto V, che reca traccia del canto XII della Liberata, in cui Tasso narra l’incontro-scontro tra i due rivali-innamorati Clorinda e Tancredi. Si osservi bene come il poeta epico introduce l’episodio, sottolineando la teatralità dell’episodio: «Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno / teatro, opre sarian sí memorande» (Gerusalemme liberata XII 54, vv. 1-2). Insomma, anche se si tratta di due generi diversi (epica cristiana e tragedia di ispirazione classica), Alfieri vedeva in quel duello una scena da teatro (e, difatti, il melodramma attingerà a piene mani da Tasso, come ha mostrato Monteverdi, su cui ho scritto qui).

Gli echi tassiani nella Mirra sono presenti quindi nell’atto finale, che vede la risoluzione della vicenda narrativa con la catastrofe: il padre Ciniro ha compreso che la figlia nutre verso di lui una passione incestuosa e si rivolge a lei chiamandola donna empia, non più figlia. Lo sconvolgimento provocato dalla rivelazione involontaria di un amore torbido è molto simile a quello dell’identità di Clorinda a Tancredi, nell’atto di toglierle l’elmo: in entrambi i testi ricorrono, oltre alla ripresa esplicita «Ahi vista», termini legati al campo semantico degli occhi (anche se, forse, la fonte più esplicita potrebbe essere l’Edipo re sofocleo in cui il protagonista, com’è noto, si cava gli occhi dopo la scoperta di essere il marito della madre Giocasta e l’assassino del padre Laio).
Gerusalemme liberata di Tasso, ottava 67 | Mirra di Alfieri, atto V |
Tremar sentí la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! | EURICLÉA Ahi vista! nel suo sangue a terra giace Mirra?… CECRI La figlia?… CINIRO Arretrati… CECRI Svenata!… Come? da chi?… Vederla vo’… CINIRO Ti arretra… |
A differenza del mito di Ovidio, in cui Mirra, con la complicità della nutrice, consuma un amore scellerato per più notti col padre Cinira, nella tragedia alfieriana non è presente l’incesto, quanto un continuo “travestimento” della principessa di Cipro, nel cui animo alberga una passione impossibile, indicibile (memore dell’infandum del libro II dell’Eneide?): Mirra si “traveste” da “buona promessa sposa” con Perèo e da figlia virtuosa e casta con Ciniro e Cecri. Tuttavia, nell’atto V, l’incognita forza, per usare le parole di Mirra, emerge e, incalzata dall‘interrogazione del padre, è costretta ad ammettere l’amore contro natura. Impossibilitata a proseguire una vita ormai colpevole, l’eroina si suicida sulla spada del genitore e, nella scena terza, davanti ai genitori e alla nutrice, risuonano parole tassiane. La rappresentazione è in entrambi i casi tragica e incentrata sul senso della vista: Tancredi capisce di aver ucciso l’amata e l’agnizione è per lui qualcosa che lo porta metaforicamente alla morte, come si legge nelle ottave che chiudono l’episodio: «Già simile a l’estinto il vivo langue / al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue» (Gerusalemme liberata XII, ottava 70, vv. 7-8); la morte di Mirra è invece concreta e, di fronte alla giovane mossa da passione incestuosa, la fidata serva, ignara di tutto, prorompe in un’affermazione di stupore e orrore, mentre Ciniro impone alla moglie Cecri di allontanarsi, per non vedere la figlia, ormai ridotta a empia donna.
Insomma, si potrebbe ovviamente allargare questa lettura “intertestuale” alle fonti classiche, specie in indirizzi in cui si studia la letteratura latina: interessante sarebbe il confronto lessicale tra gli aggettivi che connotano nel mito ovidiano e nella tragedia alfieriana Ciniro e Mirra; fruttuosa, e già indagata nelle note del commento di Vittore Branca all’edizione BUR della tragedia, sarebbe anche l’analisi delle riprese virgiliane, da quel IV libro (libro tragico in una vicenda epica) che vede tante somiglianze con l’atto finale. Come non vedere la fonte di Virgilio («Adgnosco veteris vestigia flammae», Aen. IV 23) nell’ossessiva ricorrenza nella tragedia alfieriana di fiamma/fiamme (ben 11 occorrenze del sostantivo, al singolare e plurale) a qualificare la passione incestuosa che divora l’animo di Mirra?

Tutto questo per dimostrare come un’opera complessa come la Mirra, se opportunamente contestualizzata e rapportata ad altri testi celeberrimi e noti agli studenti, possa in rilevarsi una “palestra” di competenze di interpretazione, analisi, uso del digitale e di fonti autorevoli (consultazione dell’enciclopedia dantesca e Treccani online, ma anche dei motori di ricerca lessicali nelle opere italiane e latine per rinvenire echi e riprese di termini e sintagmi). Per ragioni di formazione (la mia, fondamentalmente filologica), ho tralasciato tutte le interpretazioni psicoanalitiche della tragedia, che aprirebbero un mondo di connessioni con la filosofia e le scienze umane. Quindi la mia provocazione inziale di Alfieri come autore foriero di stimoli non è solo l’affermazione di un “noioso” docente di lettere, ma ha trovato la conferma dall’indagine sul testo, che, a mio avviso, deve restare il vero centro dell’insegnamento letterario.
Approcciare il teatro, e le tragedie nello specifico, al liceo è sempre un’impresa ardua. Al classico si possono proporre alcune opere di Sofocle ed Euripide, in altri indirizzi dei testi di autori italiani, ma Alfieri è spesso snobbato (anche Federico della Valle e altri scrittori comunque). La tua analisi stilistica della Mirra è puntuale e offre dei confronti stimolanti, soprattutto quelli con Tasso e l’isotopia della vista/agnizione. Direi che il Saul e la Mirra sono passaggi obbligati se si presenta Alfieri in quarta; volendo si potrebbe aggiungere il sonetto “Sublime specchio di veraci detti” e alcuni passi della Vita scritta da esso (ricordo il bel corso monografico del professor Rossi nel 2009). Può essere un modo anche per coinvolgere le eccellenze della classe proponendo loro un’attività che vada a insistere su competenze specifiche, al limite del filologico.
Aspettiamo un tuo articolo su Parini a questo punto, immancabile!
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