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Una macchina pachidermica e un rito necessario
Gli Esami di Stato cominciano, sui media, il giorno della prima prova scritta, il “tema” per i non addetti ai lavori, ma per chi vive la scuola, la vera data di inizio coincide con il giorno in cui il MIM riattiva la piattaforma “Motore di Ricerca delle Commissioni”, database in cui sono incluse le commissioni di tutta Italia: attraverso un semplice click, è possibile conoscere cognome, nome e istituto di provenienza del Presidente e dei commissari esterni delle discipline individuate dal Ministero dell’Istruzione nel mese di gennaio. Da quel momento inizia a montare la paura e si susseguono tentativi di capire qualcosa di più, attraverso i social e gli Spotted degli Istituti, su chi verrà a esaminare i poveri fanciulli: “ansia”, da qualche anno, è la parola chiave degli Esami, fomentata anche da chi lucra su questo aspetto (come questo sito).

Il giorno della plenaria, poi, si può capire sin da subito se sarà un Esame sciagurato (con la coda di apertura di pacchi e, financo, ricorsi) o uno sereno, con atmosfera villaggio vacanze (e annesse brioches e pasticcini portati a turno dai commissari); sugli equilibri precari di questo gruppo di lavoro provvisorio, ne ha scritto, con la solita acutezza, l’ottimo Stefano Rossetti su «La letteratura e noi», nel pezzo intitolato Come vivere da insegnanti europei, sottolineando come «una commissione non è che un consiglio di classe; ma la sua formazione, contrariamente a quanto accade per quest’ultimo, non dispone di mesi a anni per consolidarsi nel rispetto reciproco e nell’ascolto costruttivo. Tutt’altro, dispone di pochi giorni ed è esposta a rischi ben più gravi». Se Rossetti individua nel Presidente il garante di questo gruppo di lavoro, a mio avviso la responsabilità è collettiva: atteggiamenti come l’ascolto, la condivisione, il rispetto del lavoro fatto nella scuola in cui si è mandati a esaminare concorrono alla buona riuscita dell’Esame e a un clima sereno e costruttivo; se invece uno o più commissari attua un atteggiamento egoistico e narcisistico, la deriva sarà un Esame fatto di non detti, allusioni, tensioni, con conseguenze anche sul processo valutativo.
Valutare l’iceberg (e pure di fretta)
Negli ultimi anni sto riflettendo molto, dopo la lettura del saggio di Cristiano Corsini, La valutazione che educa, sulle conseguenze dei processi valutativi e su quella che spesso diventa, come dice il sottotitolo, la tirannia del voto. Correggere, valutare, indagare i processi attraverso cui si arriva a consegnare un determinato prodotto o a svolgere un colloquio orale o una presentazione, sono attività che richiedono tempi lunghi e, a mio avviso, sono influenzati sempre dalla pratica della classe e dal processo di apprendimento: alzi la mano chi non ha dato un 6.5, in un tema, a un ragazzo che, partendo da elaborati miseri, disorganici, per la prima volta ha prodotto un testo coeso e con un contenuto accettabile? Non si tratta di scadere nel buonismo e nel pietismo, quanto di vedere il voto come il punto finale di un processo, che potrebbe essere valutato (e sarebbe forse un auspicio) in termini di livelli, liberando dall’ossessione della media, che porta a comportamenti tossici da entrambe le parti in gioco (docenti e studenti).

All’Esame di Stato tutto ciò viene però meno, in un’ottica prestazionale quasi allucinante e stordente: mi è capitato spesso di vivere le correzioni delle prime prove come dei lavori forzati, leggendo ad alta voce elaborati per 12 ore consecutive (7.30-19.30), con Presidenti che incalzavano per pubblicare subito le valutazioni degli scritti e iniziare gli orali, causa incastri, a loro dire, difficilmente gestibili. L’apice di tale delirio collettivo/correttivo è avvenuto due anni fa quando ho dovuto leggere e valutare 20 elaborati dalle 15 alle 20.30 di sera, solo perché un candidato doveva partire per una trasferta sportiva e svolgere il colloquio il lunedì al primo turno!
Credo che la figura dell’insegnante di lettere sia, in una configurazione dell’Esame di questo tipo, la più penalizzata e, soprattutto, sminuita: davanti alle prime prove tutti, dal collega di Storia e Filosofia, a quello di Inglese, passando per quello di Arte, si sentono in grado di dire la loro, come se la valutazione di un testo scritto non prevedesse dei criteri e una professionalità alla base, derivante da abilitazioni, esami di didattica dell’italiano, ma soprattutto anni e anni di letture di elaborati prodotti da studenti. In ciò sta l’equivoco della correzione della prima prova, che dà anche vita alle incongruenze più evidenti in termini di valutazioni: i testi vengono sicuramente letti, financo vivisezionati, alla caccia dell’errore e delle contraddizioni interne (spesso i colleghi di filosofia, arrivano a valutarne il pensiero!), ma a mio avviso la cura è sempre, mi spiace dirlo, poca. Come potrebbe esserci, dall’altra parte, in una full-immersion senza soluzione di continuità, in aule con 30-32 gradi?
Nel contesto dell’Esame di Stato, poi, si ripresentano poi due figure ricorrenti, quasi due tipi, che ho osservato anche nell’ultima maturità:
- il docente sterminatore: tipicamente proveniente da un istituto professionale o, al contrario, da un liceo classico, inizia a sparare 9/20, 10/20, 11/20 a prove che meriterebbero ben altra valutazione; le correzioni sono accompagnate da geremiadi sul decadimento delle belle lettere e su come anche nei licei la competenza espositiva sia sempre più deficitaria. Attenzione: tale figura non si avvale della griglia di valutazione in uso, ma spara un votaccio e cerca di farlo derivare dagli indicatori della griglia. A poco valgono le suppliche dei docenti interni, che cercano di perorare la causa del candidato o della candidata di turno: lo sterminatore deve compiere il suo lavoro fino in fondo.
- il docente pietoso: per lui gli studenti sono, alla fine, pieni di valori, creature di Dio e quindi si commuove a ogni lettura dei temi e largheggia nella valutazione, inserendo come voto minimo il 13, o il 14. Per lui (o lei) il contenuto vale più della forma e i ragazzi vanno aiutati, sempre. In questo contesto, i commissari interni, che conoscono le loro pecorelle, in alcuni casi caprette in italiano, si sfregano le mani e non osano contraddire il collega-San Francesco.

Ho sempre disprezzato entrambe le figure e, negli Esami, ho cercato di comportarmi con equilibrio, valutando attraverso la griglia in uso e ragionando, solo in seconda battuta, sulla valutazione che ne derivava, assicurandomi, con gli interni, che non fosse troppo penalizzante per lo studente di turno; sono capitati casi di elaborati mediocri, composti da studenti con medie eccellenti e, quindi, per non compromettere per un “tema” la serietà di un percorso quinquennale, ho sempre provato a mediare, mantenendo la mia professionalità, ma aprendomi alle indicazioni e suggerimenti dell’altro.
Il colloquio orale: il trionfo della superficialità
Finita la correzione degli scritti, per noi docenti di lettere inizia un percorso in discesa, che prelude all’inizio del colloquio orale, con l’esposizione di un percorso pluridisciplinare a partire dai documenti predisposti dalla commissione; ammetto di mal tollerare questa parte dell’Esame, in cui le discipline vengono (eufemismo) banalizzate in un monologo (è il caso di dirlo) che può diventare letargico.
Per questo momento, pratico l’epoché degli scettici e spezzo una lancia a favore di TUTTI i candidati, coinvolti in un teatrino che, talvolta, sfiora il ridicolo. Il voler “collegare” tutto, infatti, porta a esiti quasi comici e a una ricorrenza di percorsi quasi imbarazzante: nell’ultimo Esame, infatti, credo di aver sentito per 10 volte la combo fiumana del progresso-Naturales Quaestiones di Seneca (che ho approfondito in sede di colloquio), a cui si sono collegati la seconda rivoluzione industriale, Hard Times di Charles Dickens, la guerra delle correnti in Fisica, le biotecnologie in Scienze, per finire, dulcis (?) in fundo, con la nascita delle Olimpiadi Moderne, per la semplice coincidenza cronologica con la produzione verghiana.

Non è mia intenzione indagare le ragioni alla base di tale scadimento del colloquio orale (recuperate, se volete, il pezzo L’anguilla e Tesla apparso su «La letteratura e noi»), quanto riflettere sul fatto che la preparazione di un colloquio orale implicherebbe una conoscenza approfondita, da parte dei commissari, del Documento del 15 maggio e, alla base, una cultura umanistico-scientifica che pochi di noi (io no di certo) possiedono. Alla base ci dovrebbe essere, secondo me, una progettazione di consiglio di classe e una più chiara esplicitazione dei percorsi pluridisciplinari da cui attingere per valorizzare (verbo chiave) i ragazzi in sede di Esame di Stato.
Non in tutte le scuole ciò avviene e, in questo caso, a pagarne le spese sono gli studenti. Fortunatamente, nell’ultima esperienza, i percorsi pluridisciplinari venivano indicati chiaramente (e da lì ho attinto per i materiali) ma, ahimé, non sempre gli studenti hanno la maturità e, a mio avviso, la prontezza, per elaborare un percorso coerente e argomentato in pochi minuti. Va da sé, infatti, che questi stessi percorsi presuppongano, a loro volta, dei collegamenti forzati già in partenza (esemplificativo il caso sul tempo ne La coscienza di Zeno legato agli enzimi in scienze): forse sarebbe più semplice lavorare su delle parole-chiave e da lì suggerire dei percorsi, perché, francamente, in alcuni casi sarei stato io stesso in difficoltà a imbastire un’esposizione.

Un’idea, per saldare colloquio ed Educazione Civica, potrebbe essere quella di lavorare sui Goal di Agenda 2030 o su determinati articoli della Costituzione: la presentazione dell’immagine del Goal 8 può attivare infatti una sere di collegamenti non banali che, vivaddio, possono anche non toccare le singole materie; dobbiamo sempre ricordarsi che la valutazione non è delle singole discipline, ma del colloquio nel suo complesso e quindi anche i docenti non coinvolti sarebbero in grado di dare un giudizio complessivo sulla prestazione orale.

Cinque cose che ho imparato dall’Esame di Stato
Arrivati alla fine dell’Esame, mi piace, come una sorta di memento, indicare “cinque cose che ho imparato dall’Esame di Stato”; ciò, oltre che ad essere un vezzo, rientra nella consapevolezza, sempre più viva in me, di come il nostro lavoro di insegnanti sia riflessione continua, rinegoziazione senza fine, ammissione di mancanze, colpe. D’altra parte, a mio avviso, l’ottimo insegnante non è quello che, per citare il mio Montale, «se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico», quanto piuttosto colui che cerca sempre di mettere in dubbio il suo operato, nell’intento di un miglioramento continuo.

Insegnamento n. 1: l’Esame di Stato è un rito di passaggio da mantenere
Mazzi di fiori, corone di alloro (arg!), spumante, uova, farina, salsa di pomodoro: fuori dalle scuole si è visto di tutto. Il web si è indignato e, giustamente, i Dirigenti Scolastici hanno emanato circolari preventive per prescrivere festeggiamenti sobri e, soprattutto, privi di vandalismo. Questi comportamenti, però, confermano quella che è la vera essenza dell’Esame di Stato: un vero e proprio rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Provo sempre molta emozione nel salutare i candidati e, ahimé, mi sciolgo quando stringono la mano ai commissari e ringraziano: da interno mi è scappata anche la lacrima, perché si tratta dell’atto conclusivo di un percorso, preludio alla vita adulta e alla libertà. Parliamoci chiaro: all’Esame passano tutti, ma credo che esso debba essere mantenuto per il valore rituale che ancora ricopre.

Insegnamento n. 2: ciò che per me è fondamentale, per altri non lo è (ed è giusto così)
Si tratta, a mio avviso, dell’insegnamento più importante che mi ha fornito questo ultimo Esame di Stato. Chiuso nelle mie convinzioni relative alla lingua e letteratura italiana, ho provato grande sorpresa nel non vedere nel programma autori e opere per me fondamentali, così come sono rimasto inizialmente shockato nel sentire categorie storiografiche ormai superate ripetute come mantra e percepire un lavoro sui testi fatto “a grandi linee”. Ho compreso però, grazie al confronto, che nessun autore e nessun argomento è fondamentale, ma lo è, invece, il tentativo del docente di creare una classe come comunità dialogante, che si interroghi sui significati dei testi e sul valore sempre attuale dei classici.
Insegnamento n. 3: i progetti sono importanti, ma senza rielaborazione finiscono nel nulla
La scuola italiana è diventata ormai un “progettificio”, che tende a valorizzare quanto fatto fuori dall’aula, possibilmente con esperti, bollando come “vecchio e stantio” il lavoro in classe, sui contenuti disciplinari. Ci sarebbe da scrivere un articolo intero su questo tema, ma credo che, al netto di tutto, ogni attività che si qualifica come progetto, debba avere poi una ricaduta in classe, una rielaborazione in forma scritta (una riflessione) o multimediale. Ci lamentiamo tanto di aver subìto una decurtazione del monte ore annuale per i “progetti”, ma non capiamo che dobbiamo cercare di includerli nei percorsi disciplinari, sennò restano lettera morta, ricordo impressionistico (affidato al «sì, è stato interessante» svogliato in sede di colloquio orale).
Insegnamento n. 4: l’istruzione di qualità è faticosa (e provoca un crollo di iscrizioni)
Devo ammettere che fare Esami di Stato in una scuola prestigiosa come il Liceo Scientifico “Lorenzo Mascheroni” di Bergamo è stata un’esperienza per me molto formativa; ho trovato, a differenza di altri Istituti, studenti mediamente molto ben preparati, con una cultura non solo scientifica, ma anche (e forse di più) umanistica e in grado di poter affrontare qualsiasi percorso post-diploma. Arrivare alla fine di tale percorso implica fatica, rinunce e, guardando, ahimé, al crollo delle iscrizioni di cui mi han parlato i colleghi interni, ha anche delle ripercussioni negative a livello lavorativo. La sfida, nella deriva attuale, è però quella di mantenere un livello elevato, cercando, però, di sostenere e incoraggiare gli studenti nel loro percorso, senza che facciano la fine delle ostriche di cui ci racconta Verga nei Malavoglia
Insegnamento n. 5: le discipline andrebbero “curvate” all’indirizzo in cui si insegna
Archiviato il primo Esame di Stato senza fanciullino (dite sia valido?), sommerso pure io dalla fiumana del progresso e da nature matrigne in varie configurazioni, ritengo che sia necessario, da parte dei docenti, una riflessione sulle programmazioni disciplinari, cercando di curvarle all’indirizzo in cui si insegna. Anche qui la progettazione del consiglio di classe diventa fondamentale, con l’individuazione di temi-chiave, che cerchino, dove possibile, di saldare materie letterarie e scientifiche, ricomponendo quella frattura che è sempre più evidente e sfocia in colloqui-macchietta. Quindi, all’atto pratico, è fondamentale pensare a percorsi magari poco battuti, per esempio sulla letteratura di fabbrica, il Levi minore, Zanzotto, superando la tirannia del manuale, per riscoprirci veri e propri ricercatori, di connessioni, testi minori, chicche da offrire agli studenti. Attenzione: non sono favorevole a”toppe” messe qua e là come salvagente, quanto a veri e propri moduli in cui ci si soffermi su alcuni racconti e opere, legati anche alle discipline d’indirizzo.

Condividere è tutto
E così un articolo che doveva essere di pochi paragrafi si è trasformato in un pezzone da 16.000 battute e 13 minuti di lettura. Come direbbe Manzoni, se sono riuscito «ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta», ma se avete piacere, leggerei volentieri le vostre riflessioni nei commenti qui sotto! Come spesso argomento, la condivisione è tutto e, nella scuola, dove tendiamo a diventare monadi leibniziane, ancora di più!
Sottoscrivo, Matteo, ogni anno la maturità è una fatica immane. Temperature proibitive, orari assurdi, salario mediocre e non si sa mai dove si finisce. Quest’anno per me è stata la volta di un liceo musicale, 40 orali con nomi che ricomparivano a oltranza, su tutti: Russolo, Schönberg, Risset, Messiaen, Schaeffer, Wagner; per non parlare di Boccioni, Picasso, Munch, Svevo…
Ci può salvare la solidarietà tra colleghi, se la commissione è composta da persone competenti e con doti caratteriali umane. Dal mio punto di vista è meglio essere pietosi ed equilibrati.
Anche per quanto riguarda la presunta centralità di determinati autori è come dici tu, in passato mi sono ritrovato con documenti del 15 maggio in cui non figuravano Leopardi e Verga.
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