Il 30 gennaio scorso si sono chiuse le iscrizioni per le classi prime superiori dell’anno scolastico 2023-2024 e i dati hanno scioccato molti docenti di lettere: il liceo classico è sceso sotto la soglia psicologica del 6%, attestandosi addirittura a meno del 4% in Lombardia, mentre crescono gli studenti iscritti alle opzioni liceali senza latino; insomma, una vera rivoluzione copernicana ci attende nei prossimi anni, quando nelle aule italiane si parlerà più di linguaggi di programmazione o di formule di fisica che delle Georgiche di Virgilio o delle tragedie di Sofocle. Qui sotto si riportano i dati presi dal MIM (Ministero dell’istruzione e…del merito).

In questo articolo eviterò le solite geremiadi sull’importanza degli studi classici, sulle motivazioni alla base della perdita di interesse verso le materie umanistiche e sulla degenerazione degli indirizzi liceali che, per mantenere iscritti, si sono trasformati in istituti tecnici mascherati; nei dati del MIM infatti non emerge un dato, quello forse più importante, ovvero il numero degli studenti iscritti alle future prime, che è consistentemente ridotto rispetto agli anni precedenti. Sentendo i colleghi di scuole limitrofe, si è verificato ovunque un calo di iscrizioni: le doppie sezioni si sono ridotte a una, mentre anche peggio è andato a chi vedeva un boom di richieste negli anni passati e ora si ritroverà con molte aule vuote. La logica conseguenza è il fenomeno dei docenti “perdenti posto” che, stante il rimanere in ruolo, dovranno essere ricollocati in altri Istituti. Insomma, si stanno palesando gli effetti di quell’inverno demografico di cui i media parlano da anni (vedi figura sotto).

Si deve sapere, infatti, che la soglia per creare due sezioni è stabilita solitamente dagli Uffici scolastici provinciali a 36…sotto tale numero, infatti, si procede a ricollocare gli studenti, indirizzandoli verso la loro seconda scelta in fase di iscrizione. Se le città, nel Nord Italia, stanno tenendo (il Liceo Scientifico “Filippo Lussana”, qui a Bergamo, ha fatto il pieno di iscritti) e, nello scorso anno, addirittura il 60% degli iscritti al Liceo Nomentano a Roma è stato respinto (leggi qui), la situazione nella provincia si sta rivelando in prospettiva drammatica e, se non si farà qualcosa, si assisterà a un depauperamento dell’offerta formativa locale e all’accorpamento di vari Istituti.
Cosa fare? Ritengo che in questo momento di crisi demografica anche il Ministero dovrebbe adottare quanto prima delle soluzioni per far sì che si possa mantenere una scuola se non di qualità, almeno decorosa. Da docente, ho visto negli ultimi anni crollare le competenze in entrata dalla scuola secondaria di I grado e, in generale, prerequisiti che davo per assodati (saper padroneggiare l’analisi logica, saper stendere un testo espositivo, saper dividere in sillabe, saper usare un manuale scolastico) sono ormai da ricostruire; gli anni di DaD, se hanno consentito una programmazione dignitosa al secondo ciclo, in alcune realtà del primo hanno palesato vari limiti e quindi mi sto trovando a dover “mettere dei puntelli” ai prerequisiti in entrata e, di conseguenza, a essere in affanno sulle competenze da promuovere al liceo.
Nella scuola che vorrei, quindi, le classi non devono superare le 15-16 unità: può sembrare qualcosa di scontato, ma solo con numeri di questo tipo è possibile seguire il processo di apprendimento, di recupero e consolidamento delle competenze con efficacia. Trovo infatti assai complesso personalizzare l’apprendimento avendo davanti una classe di 25 studenti (quando non di più), così come diversificare le proposte didattiche e progettare, con costanza, percorsi di recupero e di consolidamento (non parliamo della valorizzazione delle eccellenze, questa sconosciuta). Quando mi trovo, invece, a svolgere dei corsi di recupero, con un piccolo gruppo, noto la produttività di una relazione più vicina, immediata, empatica, data dal numero ridotto di partecipanti alla classe pomeridiana. Il ministro Valditara parla spesso (a caso, aggiungo) di docente tutor, ma si può esserlo solo in contesti didattici di questo tipo, non sicuramente in quelli che ci presenta la scuola italiana allo stato attuale delle cose, con un rapporto 1:25.

Nella scuola che vorrei i docenti non svolgono 18 ore frontali a settimana, ma solo 15, e ne dedicano 3 ore alla progettazione delle attività didattiche, in sinergia con i colleghi del consiglio di classe. La tipica giornata del docente italiano si svolge, da decenni, così: entrata a scuola, chiacchiere coi colleghi, passaggi nelle varie classi, saluti e fuga in direzione casa…ah, sì, poi ci sono le riunioni collegiali, che nella maggior parte degli Istituti si configurano come estenuanti e infinite assemblee che potrebbero durare al massimo un’ora e invece si prolungano per ore per un desiderio masochistico di intrattenersi a parlare spesso del nulla. I pomeriggi a scuola sono, d’altra parte, una giusta punizione per i tre mesi di vacanze che tanti ci invidiano ma, a mio avviso, sarebbe molto più proficuo che anche nella scuola secondaria si proponessero, come accade alla primaria, momenti di coordinamento settimanale tra docenti dello stesso consiglio di classe, per promuovere quegli apprendimenti unitari che la normativa tanto ci richiede.

Nella scuola che vorrei ogni studente è dotato di un PC in comodato d’uso dall’inizio alla fine del ciclo scolastico. Nelle ultime settimane di febbraio le scuole si sono adoperate per compilare le candidature ai bandi del PNRR, che hanno previsto migliaia di euro da spendere in spazi innovativi, ambienti 4.0, aule immersive, dispositivi digitali e software, ma credo che prima di riempire gli Istituti di tecnologie (sostituendo spesso alcune perfettamente funzionanti), si debba lavorare sugli studenti, vero cuore della scuola. Se si vuole davvero fare didattica innovativa, digitale, inclusiva, è necessario che ogni studente possa avvalersi di un dispositivo personale. E sappiamo che in molte realtà d’Italia non è così…

Nella scuola che vorrei gli insegnanti svolgono alcune ore in compresenza con dei colleghi; tra le esperienze più fruttuose di questi 13 anni di insegnamento ci sono stati infatti i momenti del tirocinio al Liceo “Lorenzo Mascheroni,” ma anche le quattro attività di peer tutoring che ho svolto prima come tutee (a.s. 2016-2017) e poi come tutor (negli ultimi tre). Le ore di compresenza sono state per me importanti per osservare modi alternativi di fare lezione, modalità diverse di interfacciarsi con la classe, di progettare le attività didattiche; ho potuto imparare tanto dai miei colleghi e, dalle loro osservazioni sulle mie lezioni, ho riflettuto sui miei punti deboli e, credo, di essere migliorato nella mia professionalità.
Nella scuola che vorrei la classe non è statica, ma, in alcune ore, si divide per attività di approfondimento e recupero, sfruttando magari dei docenti tutor (o esperti, se non vi piace questo vocabolo abusato), con diversi anni alle spalle e che possono aiutare i colleghi nelle attività meno strutturate. Siamo onesti: spiegare Dante a 65 anni, di fronte a un auditorio di magari 25 creature, partecipare a riunioni pomeridiane, correggere i compiti e le verifiche sono attività che logorano anche l’insegnante più appassionato. Ritengo invece che, arrivati a una certa soglia, sia necessario impegnare gli insegnanti in attività di supporto alla didattica in classe o in progetti a livello di Istituto. Riprendendo una metafora che Giuseppe Bertagna ripeteva spesso nelle lezioni di Pedagogia al TFA, è necessario che ci siano docenti “maestri” e altri “apprendisti“, così come nei lavori manuali e come accadeva nelle botteghe del Medioevo. Allo stato attuale delle cose, invece, la ricchezza rappresentata dall’esperienza di chi frequentato le aule da 30 anni si sta perdendo. A mio avviso, è necessario un dialogo fra generazioni e anche nella scuola e forse sarebbe opportuno istituire queste figure per creare un collante tra chi si affaccia per la prima volta nel mondo dell’istruzione e chi tra poco lo lascerà.
Nella scuola che vorrei il docente sente la necessità di formarsi e viene riconosciuto economicamente per gli sforzi intrapresi o gli viene corrisposto un rimborso per convegni e seminari a cui partecipa. Allo stato attuale delle cose, invece, prendersi uno (o più giorni) di permesso per frequentare i laboratori di Fiera Didacta o partecipare a LILIVM non è un’operazione indolore: bisogna chiedere l’autorizzazione al Dirigente scolastico, programmare le attività per le classi che avranno il docente supplente, sentirsi in colpa con i colleghi per eventuali sostituzioni o assenze nei consigli di classe. E invece la formazione e il confronto con l’altro sono essenziali e vitali per il nostro lavoro intellettuale, che si rigenera per gli scambi di idee, di buone pratiche, che spesso (oserei dire, sempre) avvengono fuori dalla mura dell’Istituto in cui lavoriamo. La pandemia e la proliferazione di iniziative formative online hanno riattivato quella voglia di confrontarsi che rimaneva spesso latente. Solo, a mio avviso, se siamo motivati a imparare, a metterci in gioco noi stessi, potremo essere buoni insegnanti per i nostri alunni perché nulla è peggio di pratiche tramandate senza alcuna innovazione o ricalibrazione in contesti scolastici mutati.

Nella scuola che vorrei, infine, fare l’insegnante non dovrebbe essere un ripiego e neppure il risultato di un concorso a crocette; fare l’insegnante dovrebbe essere il frutto di un percorso meditato e strutturato, non dico a ostacoli, ma nemmeno lasciato all’improvvisazione e al caso. Perché come insegnanti possiamo fare la differenza, nel bene ma, spesso, anche nel male.
Vi aspetto nei commenti…
Caro collega, sottoscrivo ogni singola parola. Io adoro insegnare, sono partita entusiasta e appassionata per un lavoro che ho sempre sognato di svolgere, ma l’ambiente scuola mi sta letteralmente rinsecchendo. Solo burocrazia, solo problemi più grandi di noi da risolvere in totale solitudine e senza gli strumenti adeguati, se non il buonsenso e l’umanità. Verissimo che gli stimoli provengono solo da fuori, e invece basterebbe anche solo potersi parlare e confrontare tra colleghi in spazi e tempi consoni. Sono molto amareggiata, perché alla scuola sto dedicando tutta me stessa (anche esagerando, a volte), ma mi torna indietro pochissimo, se non la meravigliosa umanità dei miei studenti: ciò mi basta in qualità di persona, ma non di lavoratrice professionista.
Saremo mai ascoltati dal Ministero? Non credo. Speranze pochissime. Un caro saluto! Angela
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Questo commento avrei potuto scriverlo io, dalla prima all’ultima parola.
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La scuola che vorrei è praticamente uguale alla tua. Mettiamoci la piccola differenza che io inserirei 10 ore di latino e 10 di greco a settimana, maaaa 🤣, comunque, per tutto il resto, sottoscrivo TUTTO.
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Sottoscrivo dalla prima all’ultima parola. Bravissimo! Ormai io sono fuori tempo massimo per vedere concretizzarsi un piano come quello che hai illustrato. Confido però nei docenti della tua generazione… su quelli che verranno onestamente non vedo tante prospettive, c’è una grande demotivazione nell’intraprendere questo tipo di carriera. Qualcosa può ancora cambiare ma c’è bisogno innanzitutto di valorizzare nuovamente il nostro ruolo e più in generale quello della scuola come istituzione.
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Devo constatare amaramente che le “nuove leve”, cioè i colleghi tra i 26 e 35 anni, si polarizzano in due categorie: professori-amici oppure burocrati che mirano solo al posto fisso e diventano concorsisti di professione.
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Anzitutto due premesse. Il divario generazionale tra adolescenti e cosiddetti boomer oggi sta diventando qualcosa di mai visto prima, con conseguenze potenzialmente disastrose. In seconda battuta, è evidente che i ragazzi non riescono a reggere i ritmi della “vecchia” scuola perché hanno come lavoro aggiuntivo quello che svolgono sui social media quotidianamente e pure gratis. Ciò detto, l’articolo di Matteo è frutto di buon senso ma anche razionalità. Chi non vorrebbe classi da 15 persone? Già ne esistono fortunatamente e di solito ci lavorano i colleghi con le cattedre migliori. Chi non vorrebbe uscire dal mare magnum della burocrazia sterile e del numero di voti minimi per quadrimestre? Chi non vorrebbe concertare meglio il lavoro di cdc? Il problema è che in Italia non funziona a dovere la scuola, ma nemmeno la sanità, la giustizia e le carceri. Restiamo un paese dell’UE, ma a volte è sconfortante rendersi conto di quanto poco basterebbe per vivere una vita più serena facendo il nostro lavoro.
Dico di più, si potrebbe anche superare l’idea dell’orario mattutino e pure i due mesi estivi potrebbero prevedere qualche impegno che vada a sgravare i periodi più densi dell’anno scolastico. Perché, poi, non pensare a dei corsi residenziali d’aggiornamento a luglio o agosto? Alcune mie colleghe, ad esempio, vanno ogni anno in Grecia per un seminario di storia greca.
Parlando d’inverno demografico noto con dispiacere, invece, che sono pochissimi i colleghi giovani sposati e con figli, il nostro lavoro è difficile da conciliare con la vita domestica.
Valorizzare i docenti senior è un’ottima idea, ma non sono dell’avviso che solo i docenti trentenni e quarantenni debbano sobbarcarsi il futuro della scuola italiana. Temo soprattutto i neolaureati che entrano in classe e iniziano a comportarsi come docenti autoritari ormai anacronistici…
Ovviamente la tua utopia, Matteo, è auspicabile nei licei, su tecnici e professionali c’è il problema insormontabile della disciplina poco o nulla esistente.
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Io farei una correzione. Orario a 25 ore per tutti e stipendio commisurato. In queste ore sarebbero comprese le attività complementari alla didattica compreso il job shadowing. In questo modo si allevierebbe anche un altro aspetto critico, quello delle assenze improvvise e saltuarie (purtroppo numerose), per le quali l’unica soluzione è fare entrare dopo o fare uscire prima intere classi (se non si ha il docente di sostegno presente).
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Eh per ora si tampona con l’orario dei docenti delle materie con potenziamento, ma sono poche ore, sì
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