Inizieremo domani la penultima settimana di Didattica Digitale Integrata o, come sarebbe meglio chiamarla, di Didattica a Distanza, acronimo che, insieme ad altri (penso a DPCM, RT, TI) è ormai entrato a far parte del nostro orizzonte esperienziale di forzati davanti a un PC. Preferisco chiamare l’esperienza di questo primo quadrimstre DaD, anziché DDI, perché non c’è nulla di integrato nella didattica di questo misero finale del 2020, ma solo insegnanti e alunni divisi da uno schermo, tra una videochiamata (chiamiamole così) e l’altra, tra un compito postato su piattaforma (Classroom, Teams e altri) e la sua asettica restituzione sempre online, nella speranza che tale dinamica porti a un reale apprendimento, sulla cui consistenza il dubbio è lecito.
Credo che la recente pandemia abbia purtroppo (o per fortuna?) palesato, con molta evidenza, la considerazione che la classe politica ha avuto in questi anni della scuola: si è sempre visto il sistema scolastico come un grande serbatoio da cui attingere voti, da blandire con vaghe promesse elettorali e non come un grande, forse unico, strumento di “riscatto sociale” (consiglio la lettura, a proposito, dell’articolo di Gramellini). Le parole-chiave sono state “risparmio”, “tagli”, “accorpamenti” come se investire sull’istruzione fosse uno spreco di denari pubblici.
La scuola dovrebbe in realtà, secondo la Costituzione, mettere al primo posto gli interessi degli studenti e non le logiche corporativistiche di chi vi lavora. Invece, negli ultimi anni, le uniche parole che si sono sentite a proposito della scuola sono state “stabilizziamo i precari”, “immettiamo in ruolo da Gae”, “aumentiamo lo stipendio medio degli insegnanti”, “fissiamo un monte ore massimo per le riunioni”. Mai nessuno che abbia proposto, per esempio, “un tablet per ogni alunno”, “un animatore digitale per ogni scuola”, “un assistente tecnico per ogni Istituto”. Insomma, da studente a docente, non notavo molta differenza tra la scuola frequentata a inizio anni 2000 e quella che quotidianamente vivevo fino a febbraio. Particolare rassicurante ma, forse, a ben guardare, preoccupante.
E poi è arrivato il coronavirus, che ha travolto come uno tsunami le nostre vite e ci ha messi di fronte al fatto che le strategie didattiche di molti erano ancorate a un passato da ripensare. Non solo, ci ha trovati “in braghe di tela”. E se la sanità italiana ha usato sacchetti di plastica al posto dei camici (consiglio di guardare la puntata di Report dedicata alla gestione della pandemia da parte della regione Lombardia), la Dad ci ha messo di fronte a studenti senza un PC personale con cui condurre le attività scolastiche “a distanza”, gestite sovente con il solo ausilio dello smartphone, a scuole prive di strumentazione moderna, funzionante, ma soprattutto prive di supporti tecnici (parlo di persone, tecnici), in grado di aiutare l’insegnante di turno e di fare manutenzione ordinaria. Ci ha messi di fronte all’incapacità di riprogettare, ripensare la nostra attività, come un qualsiasi professionista dovrebbe fare. Ci ha messo anche di fronte a famiglie per le quali la scuola è sempre stata per anni un “parcheggio”, non un ascensore sociale; queste stesse famiglie venuta meno questa funzione, hanno iniziato a invocare il ritorno sui banchi, anche con 1000 morti al giorno.
Credo che il desiderio di tornare “in presenza” sia legato a questo desiderio di ritornare alle vecchie abitudini: alla lezione frontale, alle verifiche in classe, alle interrogazioni, alla dinamica “io spiego, poi faccio la verifica e ti interrogo”. Non voglio, ovviamente, sottovalutare le tante criticità della DaD, prima fra tutti la valutazione che, se condotta con metodi e strategie tradizionali, non può che risultare “inquinata” nei suoi risultati. Tutti noi abbiamo avuto più di un dubbio di fronte ad alunni le cui prestazioni dalla presenza alla distanza sono “lievitate”, alla ripetizione “pari pari” di passi del libro durante una video-interrogazione (altro monstrum partorito di recente), ma credo che sarebbe sbagliato considerare la DaD come “brutto incubo” da cui ci si deve risvegliare quanto prima. Lungi da me sminuire poi la scuola come comunità sociale, che deve far crescere lo studente come individuo nel rapporto con gli altri, ma mi chiedo: sarà così il 7 gennaio (data dell’auspicato ritorno sui banchi) tra mascherine, distanziamento, lavaggio ossessivo e compulsivo delle mani, termoscanner, assenza di promiscuità tra classi, intervalli scaglionati e altro?
La dicotomia presenza-distanza non considera quello che doveva essere lo stimolo di questo coronavirus: ripensare la didattica, potenziare le competenze digitali, fruibili anche per il mercato del lavoro, proporre compiti di realtà e ripensare i contenuti delle diverse discipline. Tutti sappiamo che non è stato così, ma si è “replicato” online quello che si faceva ogni giorno in classe. Con le geremiadi di colleghi sul “programma” che, ahimé, non poteva essere completato. Ma giustamente, finché alla fine del percorso quinquennale ci sarà un esame in cui i giustizieri di turno arriveranno nella scuola a richiedere conoscenze e abilità dei poveri malcapitati, sarà molto difficile che l’innovazione penetri nella scuola italiana in pianta stabile.
La soluzione doveva però essere sin da subito un sistema integrato di presenza e distanza, di analogico e digitale: ripensare spazi e tempi di apprendimento, svincolandosi dai quadri orari che sanno ormai di caserma fascista (ha scritto tanto e bene Giuseppe Bertagna sulla presenza di lessico militare nella normativa scolastica, per esempio nel volume Dall’educazione alla pedagogia).
I tanti derisi banchi con le rotelle della Ministra Azzolina hanno in realtà un ratio: creare ambienti di apprendimento digitali, con l’uso di tablet, in modalità laboratoriale, in aule 3.0, magari senza pareti, con piccoli gruppi di studenti a scuola, nell’ottica del distanziamento. Se le scuole svedesi che agiscono così sono l’avanguardia, quelle italiane dotate di banchi con le rotelle sono invece barzellette da bar…
E così, temo che tornare in presenza equivalga a voler tornare alla scuola pre-covid, quando, in realtà, l’occasione era davvero ghiotta per poter rinnovare il nostro sistema scolastico assai ingessato e non nel senso di “sporco di gesso”.