Nostalgie triestine: recensione a “Bambino” di Marco Balzano

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Di domenica mattina mi lasciavo trascinare in giro e papà, come fossi ancora un bambino, mi comprava uno stecchetto di liquirizia che mordevo svogliato. Mai che raccontasse una storia o facesse una battuta spiritosa. Voleva soltanto sapere i voti di scuola. Quando per strada sentiva lingue e dialetti che comprendeva a fatica o vedeva visi sconosciuti tirava una boccata al mezzo toscano che teneva sempre in bocca, accelerava il passo e si metteva a origliare le conversazioni. Poi mi stringeva un braccio e facendo un sorriso stretto stretto ripeteva: «Trieste è di tutti» (p. 12).

Un’ambientazione condizionante

È Trieste e il confine con Istria e Dalmazia lo scenario del nuovo libro di Marco Balzano, Bambino, con cui l’autore torna al romanzo storico dopo il successo di Resto qui, secondo al Premio Strega dell’ormai lontano 2018 e tradotto in numerose lingue straniere. La vicenda è ambientata infatti nella città di confine per eccellenza, crocevia di popoli e culture, che Balzano tratteggia negli anni del primo dopoguerra, del Fascismo e della Seconda guerra mondiale, con l’epilogo infame (e sempre dimenticato) delle foibe.

L’ambientazione conferisce al romanzo una patina di storicità ancora maggiore: Trieste è stata, all’inizio del Novecento, una città simbolo per il Fascismo, strumentalizzata da Mussolini che, non a caso, ha proclamato proprio qui, il 18 settembre del 1938, le Leggi razziali, durante un discorso in Piazza dell’Unità d’Italia (un interessante video è qui). In realtà, come si percepisce bene dalle pagine di Balzano, in quei territori era ancora vivo il ricordo della dominazione asburgica, così come il melting pot di culture, che ne fanno, ancora oggi, città quasi straniera in territorio italiano.

Immagine reperibile all’url: https://scuoladicittadinanzaeuropea.it/risorse/approfondimenti/piazza-dellunita-trieste-1938/

Il debito con la Storia è, d’altra parte, esplicitato nella citazione tratta dalla poesia Archeologia di W. H. Auden e posta ad apertura di romanzo: «Di quella che chiamano Storia / Non c’è da menar vanto / Fatta com’è di quanto / C’è in noi di criminale»; Balzano è abile a dipingere gli effetti che la Storia, con la s maiuscola, produce sulle vite di triestini, friulani, istriani. Non c’è quindi nulla di eroico nelle imprese belliche, come nella spedizione di Mattia nella guerra in Grecia, conclusasi miseramente con una ritirata: la Storia è vista come un ciclo perpetuo di vincitori e vinti, che, intenti solo alla violenza e sopraffazione reciproca, lasciano prostrate intere generazioni di civili, pronte a leccarsi le ferite e a faticare per ripartire.

Un protagonista unico

In sole 204 pagine, con una concentrazione narrativa notevole, Balzano riesce a tratteggiare la parabola di una sorta di protagonista unico, Mattia Gregori, secondogenito di un orologiaio triestino e di una donna slava ignota, la cui ricerca occuperà la parte iniziale del romanzo. In realtà al cognome Gregori si sostituirà ben presto il soprannome di Bambino, assegnatogli dagli squadristi nel cap. 4 della prima parte, intitolata, significativamente, Figlio di nessuno:

– Ti piacciono le donne, vero?

– Come a tutti, – ho risposto a bassa voce.

Ha continuato a indagare il mio volto, poi trattenendo il fumo in bocca ha detto: – Non ti cresce neanche un filo di barba. Chissà perché… – Siamo rimasti ancora a guardarci. Mi ha passato lentamente il dorso delle dita sulla guancia prima di annunciare: – Ti chiameremo Bambino (p. 30).

A mio avviso, il personaggio di Mattia Gregori è uno dei meglio riusciti di Balzano: in Bambino lo scrittore milanese indaga le inquietudini derivati dalla maternità sconosciuta, ma soprattutto il rapporto complesso con il padre, una figura votata alla rassegnazione e che non può diventare un punto di riferimento per il giovane il quale, dopo la partenza del fratello Adriano per l’America, viene coinvolto dagli squadristi del Fascio in un vortice di violenza, fino a una redenzione finale che, tuttavia, non sfocerà in un lieto fine.

Un topos letterario: il rapporto padre-figlio

Tra i temi del romanzo c’è sicuramente il rapporto padre-figlio, tipico delle latitudini mitteleuropee nelle quali il romanzo è collocato (pensiamo, infatti, alla Coscienza di Zeno di Svevo, ma anche alla Lettera al padre di Kafka o alle liriche di Saba); Balzano è abile nell’eliminare, sin dalle prime pagine, la stinta figura della Tella per lasciare spazio a una relazione che si ribalta nel corso della narrazione. Alla progressiva decadenza del padre, fiaccato nel fisico e nello spirito dall’attacco vandalico all’orologeria, si affianca il vigore di Mattia, preso in un vortice di violenza sorda e cieca che lo porta a razzie, scorribande sulla costa del Carso, pestaggi, per sfogare la rabbia derivante da un’origine ignota e dal mancato rapporto con la madre.

Le pagine del capitolo Figlio di nessuno sono emblematiche di questa ricerca che si macchia di sangue: «Ogni settimana macinavo coi miei uomini chilometri su chilometri. Benzina e armi ne avevamo a volontà, non c’era che da chiedere. Giravo con un pugnale da ardito in tasca e una rivoltella infilata nella cintura. Piccole bombe a mano e taniche di alcol me le procuravo in un magazzino del molo Sartorio. Segnavo ogni campanile dove passavo» (p. 54). E ancora: «In pochi all’inizio mi temevano, la mia magrezza e la faccia glabra non lasciavano pensare alla furia che poi li sorprendeva appena gli saltavo alla gola. Sapevo dove colpire, affondavo le ginocchia nel ventre, i gomiti nel collo, mordevo come un cane, i pugni che tiravo ferivano con le nocche» (p. 31).

La parabola di Bambino, nel corso del romanzo, è fatta però anche di bassi, oltre che di alti, di fatiche condivise con il padre, in quadri che Balzano dipinge con vividezza, come questo del 1944, inserito nella parte I nomi degli altri, incentrata sull’operato di Bambino, pronto ora a denunciare, per sopravvivere, i capi fascisti di Trieste: «Abbiamo aspettato tra le nostre quattro mura un paio di giorni, mangiando in silenzio brodo di verdura e carne in scatola. Non avevamo il coraggio di confidarci la nostra speranza, ma tutto era vero: Trieste era sopravvissuta anche stavolta. E io con lei» (p. 178).

Un rapporto in cui, nel finale, il padre dona al figlio una nuova vita, in una sorta di traslazione nella figura della madre; dopo avergli procurato documenti falsi, gli assegna il nuovo nome di «Alessio Fonda, nato a Trieste nel 1901», per ricominciare una nuova vita come malgaro di Giuseppe Tonon, in una regressione a uno stadio prima della civiltà che possa lavarlo dalle colpe:

«In fretta mi sono dimenticato delle persone che ho ucciso, di quelli su cui ho riversato violenza e lasciato dolore. I fascisti, i tedeschi, gli slavi si rimpicciolivano nella mia mente. Le solite assenze con cui tornavo a parlare riprendevano a poco a poco tutto lo spazio dei miei pensieri. A una certa ora scendevo a rigovernare la stalla. Se mi avanzava del tempo mi stendevo a letto. A volte provavo a scrivere qualche riga. Bepi non era interessato al mio passato, pensava solo alla moglie e alle sue bestie. Forse nemmeno lui aveva un passato: la sua vita anche durante la guerra e fin dall’infanzia doveva essere stata sempre la stessa» (p. 185).

Un finale senza redenzione

Tra i passi più toccanti del romanzo c’è sicuramente la lettera che Mattia invia a Ernesto, l’amico d’infanzia, che rompe ben presto l’amicizia con il neo-squadrista:

«Sai, non sono cambiato. Nemmeno tutte le botte che ho dato e ricevuto e i colpi sparati e schivati mi hanno cambiato. La cattiveria me l’hanno messa addosso la paura e la guerra, non ci sono nato. […] Dove abiti e cosa fai adesso? Dove ti ha portato la vita e quante soddisfazioni ti ha dato? Non ti chiedo di più, perché spero un giorno di sentirlo dalla tua voce. Ti ho sempre immaginato dalla parte giusta e questo pensiero mi mette invidia e felicità» (pp. 194-195)

In questa lettera il lettore può comprendere lo scavo di Bambino su sé stesso, l’onestà con cui ammette i propri errori, la debolezza che è diventata forza, violenza cieca, senza controllo, e che ha fatto del male, fisico e psicologico, a numerosi personaggi.

Dopo aver sperimentato la violenza, la fame in Grecia, la lenta risalita col padre e la rinascita, con il nuovo nome, il lettore si aspetterebbe un “lieto fine”, con Mattia che si redime e ricomincia una nuova vita, magari con una delle figure femminili tratteggiate fugacemente nel corso del romanzo. In realtà, il capitolo 11 della parte I nomi degli altri riserva per Bambino un’atroce conclusione, inaspettata, una sorta di contrappasso per la tanta violenza di cui è stato protagonista nel corso della sua vicenda umana. D’altra parte, è il protagonista stesso ad affermare che «Dove c’è sangue non può esserci nient’altro che sangue» e la vicenda si chiude nel sangue, in perfetta consonanza con il resto del romanzo. Una pagina finale da leggere e rileggere, in cui avviene una sorta di ribaltamento della celebre poesia Veglia di Ungaretti.

Tra Manzoni e riflessioni sulla lingua

Per i lettori amanti di Manzoni, non si potranno non notare i tasselli dei Promessi sposi presenti nell’opera; il più macroscopico, a mio avviso, riconduce alla doppia identità di Mattia Gregori che, proprio come Renzo Tramaglino assume il nome di Antonio Rivolta, così nella parte conclusiva del romanzo si chiamerà Alessio Fonda. Balzano è poi abile nell’analizzare come i grandi eventi della Storia (il Ventennio fascista, la guerra in Albania, la seconda guerra mondiale, lo sterminio degli ebrei, le foibe) influiscono sulle vicende della famiglia Gregori e sulla gente triestina a cavallo tra Ventennio Fascista e fine seconda guerra mondiale.

A questo aspetto, si aggiunge uno dei topoi narrativi di Balzano, già presenti in Resto qui, ovvero la riflessione sulla lingua; se nel romanzo del 2018 la lingua assumeva un valore identitario, sorta di marchio di razza, qui viene strumentalizzata e diventa un mezzo di potere di Mattia che, unico tra gli squadristi, grazie alla lingua slava imparata dalla madre di Ernesto, riesce a comunicare con i poveri popolani vittima delle sue razzie. Balzano ragiona quindi sul fatto che la lingua non è mai strumento neutro, si carica sempre di ideologia e viene usata per scopi spesso ignobili.

Un libro per tutti

La deformazione professionale mi porterebbe a riflettere sui motivi per inserire Bambino nelle letture scolastiche, magari del secondo anno (per il genere romanzo storico) o di quinta (per l’ambientazione triestina e l’intreccio della vicenda di Mattia Gregori con la tragedia storica del Fascismo, della Shoah e delle Foibe). Tuttavia ritengo che l’intento dello scrittore non fosse quello di un romanzo per la scuola, quanto di consegnarci, come scrive acutamente Giuseppe Lupo su «Doppiozero»: «un ribelle fragile, un violento bisognoso di amore, un adulto che non vuole uscire dalla condizione di figlio, un perfetto antieroe, insomma, offerto ai lettori nella lineare coerenza di una lingua evocativa e tagliente». Un personaggio in cui è difficile identificarsi, che suscita repulsione ed orrore ma che, in realtà, anche se è collocato nella temperie del Novecento, mi sembri possa essere trasferito in questi sanguinosi anni Duemila. E parlarci da vicino.

Una opinione su "Nostalgie triestine: recensione a “Bambino” di Marco Balzano"

  1. È il terzo libro di Marco Balzano che leggo, dopo “Resto qui” e “Le parole sono importanti”. È un testo che scava nella zona grigia tra umano e disumano, e lo fa con una buona ricostruzione storica. Risulta spiazzante perché, come dici tu, è difficile empatizzare con il protagonista, che tuttavia dimostra un suo spessore psicologico. Può essere una proposta per ragazzi di quinta liceo, anche perché affronta la questione di Trieste e delle foibe, oltre alla campagna di Grecia. Ho apprezzato l’attenzione al rapporto del protagonista con il padre e le due madri (l’aspetto edipico è evidente lungo tutto il racconto), unico appunto è lo stile, molto scorrevole ma paratattico e prevedibile, aspetto che non rende il romanzo un capolavoro, cosa che poteva essere se avesse avuto uno sviluppo più ramificato e approfondito.

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