Tra gli innumerevoli “Adempimenti finali” che i docenti hanno dovuto consegnare entro fine giugno era presente il modulo dei desiderata che, oltre a richieste di tipo organizzativo (giorno libero, modulazione del monte-ore della propria disciplina, preferenze orarie), contiene anche una sezione riguardante le classi che si desidererebbe (da qui il termine desiderata) avere o mantenere nell’anno scolastico 2022-2023. Compilo questo modulo già da parecchi anni perché, nonostante sia stato immesso in ruolo nella scuola statale solo nel settembre del 2016, anche nella scuola paritaria dove insegnavo prima ero a tempo indeterminato e il Coordinatore didattico faceva compilare a giugno la lista dei desiderata, che venivano vagliati dalla “commissione didattica”, ovvero un team di collaboratori che gestiva l’assegnazione delle cattedre per l’anno scolastico successivo.

Di “cattedre”, termine che fa molto inizio XX secolo e riforma Gentile, quando il liceo era l’anticamera dell’università, si parla nelle riunioni di dipartimento di aprile, deputate principalmente alla scelta dei libri in adozione e, almeno da qualche anno, il mantra che sento ripetere è quello di privilegiare la “continuità didattica“; all’atto pratico, è in atto un’estensione della verticalità biennio-triennio, con lo stesso docente che mantiene la classe dalla 1^ alla 5^. Se si fa un giro nei documenti del 15 maggio delle scuole bergamasche, pubblicati sui siti degli Istituti e liberamente consultabili online, si può avere una conferma di questa prassi consolidata, soffermandosi, in particolare, sul paragrafetto intitolato “continuità didattica”.
Quando insegnavo nella scuola paritaria, il proprietario (molto illuminato) finanziò, negli anni scolastici 2012-2013 e 2013-2014, dei corsi di formazione con una psicologa del lavoro destinati a noi docenti, per discutere, in sedute di gruppo, tra insegnanti preferibilmente non dello stesso indirizzo (per ovvie ragioni di privacy), di problematiche relative alla nostra professione; ricordo bene che avevo proposto come mio “caso” le criticità che riscontravo nella continuità didattica e la difficoltà di essere oggettivo e mantenere un rapporto “sano” con le classi dopo 2-3 anni. Da questa affermazione, si può subito capire come la pensi sul tema: dal mio punto di vista la continuità didattica potrà avere sicuramente dei vantaggi, specie in questi anni di scuola “a singhiozzo”, ma, in condizioni scolastiche normali, risulta un “peso” tanto per gli insegnanti, quanto per gli “studenti”.
Devo essere sincero: prima dell’esperienza del Coronavirus, che ha stravolto, ovviamente, il nostro modo di fare scuola e di interfacciarci con gli studenti, ho avuto soltanto due classi dalla seconda (non dalla prima) alla quinta: nella vecchia scuola, la “Vicepreside” non mi riteneva in grado di insegnare latino (…) e quindi avevo solitamente delle cattedre articolate in Geostoria al biennio e italiano al triennio; così è accaduto che portassi due classi che avevo incontrato in seconda all’Esame di Stato conclusivo. Devo dire che in entrambi i casi la dinamica è stata la stessa: criticità al secondo anno, con annesse difficoltà nell’adattarsi al mio stile di insegnamento e alle richieste in Storia e Geografia, disciplina che forse padroneggio poco e su cui fatico a tarare obiettivi e contenuti; entusiasmo in classe terza, anno di svolta per l’approccio con le tre Corone (specie Dante) e la letteratura italiana medievale; attenzione in calo in classe quarta, per i contenuti vuoi meno attrattivi e per una certa insofferenza mia verso di loro e viceversa; discesa finale in classe quinta, con la prospettiva di un saluto a fine anno per un rapporto che, come ripeto sempre, “dopo un po’ si logora”. L’andazzo che vedo nella scuola pandemica e post pandemica è quello di “lavare i panni sporchi in casa propria” per 5 anni e, sinceramente, è un aspetto che mi sta non poco destabilizzando; richieste di spezzare la continuità in classe terza vengono viste come strane, da “motivare” alla Dirigenza e vengono rigettate per garantire almeno la continuità del docente in anni in cui quella della scuola in presenza è stata un miraggio.
Credo, però, che la soluzione migliore, specie per materie come italiano, latino, storia e geografia, che prevedono al biennio un monte ore davvero cospicuo (12 ore al classico, 10 allo Scientifico tradizionale e alle Scienze Umane, 9 al linguistico e comunque 7 ore nei “licei” senza lingua classica) sia interrompere la continuità dal biennio al triennio, per una serie di ragioni che andrò a elencare.
In primo luogo, ritengo che l’approccio verso la disciplina debba essere condotto attraverso metodi di insegnamento/apprendimento e prospettive diverse; mi spiego meglio: se al biennio si è assegnato alla 1B Linguistico come docente di italiano un laureato in archeologia, o lettere classiche, che ha impostato le lezioni e l’itinerario privilegiando epica, grammatica e uno studio normativo della lingua classica, è opportuno che, al triennio, in cui si potenzia maggiormente la componente letteraria, si assegni la classe a un modernista; se invece consideriamo due docenti con la stessa formazione, l’ideale sarebbe alternarli tra biennio e triennio se fanno uso di metodologie diverse. Sarebbe l’ideale che si scambiassero le classi docenti che fanno uso, magari, di metodologie più attive e collaborative con altri di stampo più tradizionale e, magari, più legati a una didattica di tipo trasmissivo che, ahimé, prospera ancora nelle classi dello Stivale.

In secondo luogo, ma per me elemento determinante, c’è la motivazione. Racconto qui un episodio che fa riferimento al mio passato di insegnante privato di latino per un ragazzo intelligente e sveglio, ma con problemi nell’apprendimento. Nel corso del biennio ha sempre avuto la carenza formativa in latino, nonostante venisse da me una volta a settimana a lezione e frequentasse tutte le iniziative di recupero attivate dalla scuola. Superato il “debito” di seconda brillantemente (con 7), si aspettava di cambiare la sua insegnante di latino, una docente molto valida e preparata ma, a mio avviso, eccessivamente esigente e in classe un po’ soporifera; una volta pubblicato il calendario delle lezioni della prima settimana di terza, scoprì però che la stessa docente, solitamente “fissa” al biennio, era non solo ancora docente di latino, ma anche di italiano (e l’avrebbe vista 7 ore a settimana per i prossimi tre anni): lo studente si lasciò andare, collezionò una valanga di 3 e 4 nelle due discipline e, a fine anno, venne bocciato. Ovviamente si tratta di un esempio, ma forse il cambiamento può davvero aiutare nell’approccio alle diverse materie. Le stesse considerazioni possono valere per gli insegnanti, o almeno, valgono per me: sono sempre entusiasta di iniziare un percorso con le classi prime (io e una cara amica ripetiamo scherzosamente la massima di una ex-collega che recitava «le prime sono sempre emozionanti», che contiene sicuramente un nocciolo di verità) e con delle terze che non conosco, ma non mostro la stessa motivazione in quarta o in quinta, specie se ho queste classi dalla prima. Nel nostro lavoro, però, la motivazione è tutto: porta a sperimentare, a proporre modalità di lezione alternative, a impostare progetti sulla classe, ad approfondire quanto già fatto. Questa spinta non mi capita, invece, quando so che “dovrò” portare anche al triennio una classe che ho già avuto al biennio, magari per italiano e latino, per 6h a settimana, per 396 ore!!!

Poi ritengo che “spezzare la continuità didattica” abbia ripercussioni positive anche sull’oggettività nella valutazione, anche se si tratta anche questo, forse, di un “falso mito”; i rischi della continuità sono due: l’effetto di alone e quello di Pigmalione. Il primo si verifica quando un giudizio precostituito sullo studente influenza in maniera determinante (sia positivamente sia negativamente) la valutazione di una sua specifica prestazione. L’effetto di alone si ha quando la valutazione di una prova è influenzata da quelle di prove precedenti, per cui gli insegnanti tendono a ritenere migliori le prove di chi ha ottenuto già buoni oppure ottimi risultati. Ne siamo tutti (chi più chi meno) colpiti e lo noto nelle produzioni scritte di italiano: anche usando le griglie di valutazione di dipartimento o ministeriali, il collocarci dentro un indicatore o un altro spesso è influenzato dall’idea che di quell’alunno o alunna ci siamo fatti nel tempo: anche se farà una prova buona, l’allievo eccellente prenderà 9, al contrario, quello zoppicante, anche se farà una buona prestazione, magari non supererà il 6.5-7. Di conseguenza, l’accanimento nel proporre elaborati scritti (quindi prove di competenze) a classi che si conoscono dall’inizio del percorso di scuola superiore risulta a volte inutile: prima della prova si possono già prevedere, grossomodo, i risultati, con una banda di oscillazione di 1 voto/1 voto e mezzo..
Anche l’effetto di Pigmalione, della “profezia che si autorealizza”, è altrettanto interessante ed è una delle criticità derivanti, a mio avviso, dal mantenimento della continuità didattica dalla prima alla quinta: si tratta, in poche parole (mi scuso per la psicologia spiccia), di una forma di suggestione per cui gli studenti tendono a conformarsi all’immagine che i docenti hanno di loro, sia essa positiva oppure negativa. Nel 1965 Robert Rosenthal e il suo gruppo di ricerca sottoposero alcuni scolari di una scuola elementare a un test d’intelligenza, dopo il quale, in modo casuale, vennero segnalati alcuni bambini e ai loro insegnanti fu fatto credere che avessero un’intelligenza superiore alla media. La suggestione fu tale che, quando l’anno successivo Rosenthal si recò presso la scuola, constatò che, in effetti, il rendimento dei bambini selezionati era notevolmente migliorato e questo solo perché gli insegnanti li avevano influenzati positivamente con il loro atteggiamento. Come scrive Rosenthal con Lenore Jacobson, «in classe, l’insegnante deve sapere che, se è lui a farle, quelle stesse previsioni possono finire con l’autorealizzarsi. Lui non è un casuale passante. Al contrario il suo ruolo potrebbe essere quello di Pigmalione – Pigmalione nella classe» (R. Rosenthal-L. Jacobson, Pigmalione in classe, Francoangeli, Milano 1991). Insomma, ogni azione didattica non è neutra, ma può condizionare in maniera decisiva le sorti dello studente, soprattutto quelle professionali dopo il diploma; ed è per questo, quindi, che a mio avviso, sarebbe meglio che nel suo processo di apprendimento e crescita si avvicendassero figure diverse, proprio per prevenire questo effetto. Ma la questione è più complessa: se gli insegnanti si trovano davanti studenti motivati, ricettivi e propositivi, saranno a loro volta più empatici e creeranno un ambiente di apprendimento sereno e stimolante; al contrario, messi di fronte, magari dopo diversi anni di continuità didattica, a demotivazione, disinteresse verso la propria disciplina, risultati della classe mediocri o risposte degli allievi non in linea con le aspettative, tenderanno a percepire l’inefficacia dei propri metodi di insegnamento, con frustrazione e ricadute negative anche nel processo di insegnamento/apprendimento. Rapportato alla mia esperienza personale, posso confermare questa dinamica, specie rispetto a classi poco propositive, soltanto ricettive e dal rendimento non particolarmente brillante: dopo un po’ di tempo perdo la fiducia nel mio lavoro, non tento strade diverse né metodologie particolarmente innovative, né ripropongono progetti extra-curricolari, perché mi aspetto già (dopo aver fatto diversi tentativi in questa direzione) un feedback negativo.

Credo di aver sufficientemente argomentato la mia posizione sulla continuità didattica, ma so di colleghi che invece la sostengono e incoraggiano per diverse ragioni, che vado qui a elencare in ordine sparso: conoscenza pregressa della classe e delle sue dinamiche interne; possibilità di strutturare itinerari di apprendimento su più anni, con rimandi anche in verticale; maggiore stabilità e sicurezza nelle relazioni con studenti, famiglie e rappresentanti. Ne abbiamo parlato nelle riunioni, nei corridoi davanti alla macchinetta del caffè e, pur riconoscendo le loro motivazioni a favore della continuità valide, mi ritengo un po’ come la Lucia di fronte al discorso di Renzo nel capitolo finale dei Promessi sposi: «Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa». Ecco, anche me manca qualcosa nell’aderire con convinzione alla continuità didattica, prassi ormai dilagante.
Insomma, riferimento manzoniano a parte, si tratta di due posizioni ben definite…e voi, come vi collocate? Scrivetelo nei commenti!
Caro collega, nella mia scuola, invece, è prassi interrompere la continuità didattica tra biennio e triennio salvo casi eccezionali. Devo dire che sono d’accordo con te: gli studenti hanno bisogno di conoscere approcci diversi, non solo didattici, ma anche valutativi.
Piuttosto io sono critica con la scelta, frequente nella mia scuola, di adottare quello che io chiamo “l’insegnante prezzemolo”, ossia l’eccessiva frammentazione delle cattedre. Per esempio capita che un ragazzo abbia un insegnante per italiano, uno diverso per Geostoria, un altro ancora per Latino e magari al triennio abbia un insegnante diverso per Storia e Filosofia (oppure alle Scienze Umane, sempre triennio, un insegnante per le 4 ore di Italiano e un altro per le 2 ore di Latino). Ecco: io questo spezzatino non lo capisco, mentre per me spezzare la continuità didattica tra biennio e triennio è una necessità sia per i docenti che per gli studenti.
Ciao! Angela
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Carissima Angela,
che piacere risentirti! No, da noi è invece prassi abbinare latino a una materia, senza mai lasciarlo spaiato (a meno di casi eccezionali, di un anno). Secondo me abbinare latino a italiano, oppure storia a italiano è essenziale per dare continuità al lavoro in classe e ottimizzare anche percorsi interdisciplinari, specie al triennio.
Che dici?
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Troppa continuità è un male anche a mio avviso. Serve il giusto equilibrio e un’alternanza tra classi del biennio e del triennio. Attualmente sto accompagnando tre classi terze (ormai quarte a settembre) dalla prima e inevitabilmente subentra un po’ di fatica nel sopportarci a vicenda. In una di queste ho perfino 10 ore (latino, italiano e storia). Circa le cattedre “spezzatino” ha detto tutto la collega, ne ho avute anche cinque un anno e non si lavora al meglio. E pensare che al liceo ho avuto solo un docente dal primo all’ultimo anno, il prof. di religione, un’eccezione gradita.
ps da noi nei desiderata non c’è la dicitura relativa alle cattedre, fa tutto la DS.
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Una voce fuori dal coro, che sento molto vicina a me. Nella mia città per anni alle superiori ci sono stati “quelli del biennio” e “quelli del triennio”. Da una decina d’anni i Dirigenti spingono per le cattedre in verticale, ma non necessariamente in continuità. Questa per me è la soluzione migliore. Mantiene la nostra elasticità e la motivazione sia nostra che degli studenti. Cinque anni insieme non fanno bene né a loro né a noi.
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Carissima,
credo che la soluzione ideale sia quella di proporre delle cattedre per docenti in cui classi che vengono tenute al biennio, siano poi lasciate al triennio e viceversa. Non mi piace neppure a me la cristallizzazione tra “prof. del biennio” e del “triennio”, la trovo demotivante per gli insegnanti. Il punto forte credo sia la motivazione e, come mi scriveva ieri un collega sui social, anche gli allenatori dopo un po’ di anni vanno cambiati, perché solo così si può garantire la crescita degli atleti.
Grazie del commento, che mi fa sentire meno solo.
Matteo
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