Il 25 di maggio sul «Corriere della Sera» è apparso un interessante editoriale di Sabino Cassese, dal titolo Il merito torni a scuola. Il giornalista rifletteva sul recente provvedimento del Ministro dell’Istruzione Bianchi, che prevede l’assunzione a tempo indeterminato dei cosiddetti “precari” con tre anni di servizio, dopo la stipula di un contratto annuale, un percorso formativo e una «prova disciplinare» orale, giudicati da una commissione “esterna” alla scuola in cui si è prestato servizio (per maggiori dettagli, cliccate qui). Come ricorda l’editorialista, i supplenti con tre anni di servizio sono attualmente circa 134 mila e verranno stabilizzati nel futuro senza passare da una procedura concorsuale selettiva, come invece prevede la Costituzione, all’articolo 97, secondo cui «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso».
Niente di nuovo, comunque, sotto il sole: i concorsi abilitanti ci sono sempre stati, così come le “sanatorie” per stabilizzare categorie che, giustamente, hanno “tirato il carretto” per anni, mandato avanti e formato generazioni di studenti ma che, per ragioni personali, di mancato superamento di esami o scelte professionali, non si sono mai abilitati o non hanno passato alcun concorso selettivo. Basta vedere la mole spropositata di supplenze annuali in classi di concorso come “Italiano e storia negli Istituti superiori” o in “Matematica” per capire la portata del problema e la piaga del precariato che affligge la scuola italiana, con evidenti ripercussioni sulla continuità didattica e l’apprendimento degli studenti.
L’articolo di Cassese parla di merito ma, considerando il provvedimento del Ministro dell’Istruzione, si tratta di tutto tranne che di valorizzazione del merito e della professionalità, visto che, così, ope legis, si conferiranno a docenti supplenti contratti a tempo indeterminato nello Stato. Anche il concorso straordinario, d’altra parte, svolto in piena pandemia (…) farà assumere con una semplice prova computer based candidati sprovvisti di abilitazione, ma con il solo servizio. Si salta quindi “a piè pari” un passaggio fondamentale per la professione di insegnante: la formazione e il cosiddetto “tirocinio” sul campo. In aggiunta, si rende assai difficoltoso, per i nuovi laureati che intendono intraprendere la carriera scolastica, entrare in pianta stabile da subito, data la variante per loro assai penalizzante del “servizio”.
Per chi non è dentro il mondo della scuola, giova ricordare come si raggiunge questa “anzianità di servizio” che porterà al ruolo: una volta laureati e in possesso dei CFU dell’ambito disciplinare richiesto dalla classe di concorso, ci si poteva inserire (fino allo scorso anno, quando le graduatorie sono diventate provinciali, ma seguendo gli stessi criteri) in terza fascia, scegliendo 20 istituti di scuola superiore di una determina provincia. Sulla base delle graduatorie (stilate sulla base di titoli, anni di servizio, certificazioni linguistiche o informatiche) e di cattedre o “spezzoni” (cattedre di meno di 18 ore) vacanti, si veniva poi chiamati a settembre e, nel caso di ottenimento di una supplenza annuale, iniziava la “raccolta dei punti”, che portava a scalare le graduatorie. Nel corso degli anni, anche sprovvisti di abilitazione, i docenti con un punteggio di servizio alto erano quasi “sicuri” del posto di lavoro e della supplenza annuale perché, concretamente, nelle venti scuole in cui erano inseriti si sarebbe comunque trovata una cattedra a loro disposizione. Non di poco conto è anche la componente “fortuna”: una maternità, una cattedra vacante in luoghi periferici possono essere fondamentali per scalare le “graduatorie”.
Questo sistema, ovviamente poco meritocratico, si basa sul fatto che, all’atto pratico, in Italia si può entrare in un’aula scolastica (dalla 1^ primaria alla 5^ superiore) e formare le future generazioni, con il semplice titolo di studio, senza essere in possesso di competenze psico-pedagogiche, senza aver fatto un’esperienza di tirocinio sotto la supervisione di un tutor, senza aver studiato la didattica delle discipline e la progettazione disciplinare. Questo perché, alla base, c’è, forse, l’idea che il mestiere di maestro e di professore sia alla portata di tutti e che le responsabilità siano minori rispetto a quelle, per esempio, di un dentista, che ottura una carie o di un chirurgo che opera un paziente.
Così, nel corso degli anni o, meglio, dei decenni, in base al Ministro dell’Istruzione di turno, chi ha voluto intraprendere come “lavoro di una vita” questa affascinante, ma complessa, professione, si è trovato di fronte a diverse possibilità (me ne sarò certamente dimenticate alcune, visto la complessità della questione e la mutevolezza delle proposte): laurea quadriennale + scuola di specializzazione all’insegnamento + concorso selettivo; laurea quadriennale + concorso abilitante; laurea quadriennale + percorso abilitante riservato; laurea triennale + laurea specialistica + TFA + concorso selettivo; laurea triennale + laurea specialistica + TFA + concorso non selettivo; laurea triennale + laurea specialistica + PAS + concorso selettivo; laurea triennale + laurea specialistica + PAS + concorso non selettivo. Quindi, all’atto pratico, sono entrati nella scuola docenti con due anni di corso abilitante (la vecchia SISS, che era a “numero chiuso”), ma anche docenti con un percorso minore (un anno), selettivo (TFA) o non selettivo (PAS).
Se dovessi guardarmi indietro, considero l’anno della mia abilitazione attraverso TFA (Tirocinio Formativo Attivo) (il 2012-2013) come quello più ricco di stimoli per la mia professione e la mia crescita come lavoratore: le lezioni laboratoriali con i docenti di didattica delle discipline, gli scambi con i docenti compagni di corso sono stati dei momenti di crescita che mi hanno permesso di svolgere la mia professione con consapevolezza e maturità, consapevole, d’altra parte, delle responsabilità che tale ruolo richiede. Senza quel percorso (e, devo ammetterlo, l’attività di formazione proposta dalla scuola paritaria dove insegnavo) non avrei mai vinto il concorso nel 2016 e, probabilmente, sarei ancora un precario in attesa delle chiamate di settembre. Buttato nella scuola con la sola laurea, negli anni 2010-2012 non avevo, forse, gli strumenti per gestire la classe né la programmazione, ma ero solo un “conoscitore delle materie” prestato all’insegnamento, desideroso dei consigli dei colleghi più esperti, a cui infatti mi sono attaccato “come una cozza” per carpire informazioni, imparare strategie e ricevere raccomandazioni.
Più di tutti, però, ha fatto la differenza il tirocinio in una scuola che, credo, sia un momento molto svilito negli attuali percorsi di reclutamento; poter “vedere all’opera” un insegnante di ruolo, affiancarlo per 100 ore circa, comprendere come si relaziona con le diverse classi, capire le strategie che mette in atto per promuovere l’apprendimento, quale didattica adopera nelle diverse classi è fondamentale per dotarsi di una cassetta “degli attrezzi” di cui avvalersi nel proprio lavoro. Questo forse è dovuto al fatto che ho avuto come tutor un Docente con la “D” maiuscola: appassionato alla materia, in grado di usare metodologie diverse di insegnamento, aperto al dialogo, desideroso di creare una “comunità ermeneutica”. Il fatto che fosse toscano e insegnasse italiano era ovviamente un plus non da sottovalutare.

Oltrepassando questa parentesi nostalgica da Attimo fuggente, credo che si possa però fare una riflessione più profonda sulla necessità di riflettere non solo sull’assunzione dei docenti tramite merito, quindi attraverso concorsi selettivi che valutino le competenze non solo disciplinari, ma l’attitudine all’insegnamento e allo “stare in classe”, ma soprattutto sulla carriera degli insegnanti. Questa, ahimé, a meno che si voglia provare il concorso per Dirigente Scolastico o si orbiti nel “team dei collaboratori”, con qualche ora di “distacco”, è assente; le progressioni di carriera avvengono solo per anzianità, senza valutare effettivamente il tipo di lavoro svolto, i progetti portati avanti, i risultati degli studenti all’università. Ora, per un’istituzione che si fregia di insegnare agli studenti l’importanza del merito mi pare quantomai assurdo che non ci sia alcun avanzamento di carriera per i docenti; d’altra parte, nel calcolo del punteggio in graduatoria interna, avere un figlio a carico dà 6 punti, ma nulla viene riconosciuto alle pubblicazioni scientifiche, a eventuali incarichi di tutoraggio universitario, mentre la fatica di un master riceve un misero riconoscimento di 1 punto…
Come integrare quindi spinta al merito e valorizzazione della professione insegnante? Una proposta interessante potrebbe essere la seguente che, mi ricordo, era stata presentata già dal prof. Bertagna durante una lezione di TFA del 2014: “distaccare” docenti di ruolo da molti anni da parte del servizio e impiegarli in attività di formazione / tutoraggio nei percorsi di abilitazione dei docenti; in questo modo, infatti, la loro lunga esperienza non verrebbe vanificata, ma valorizzata; questi potrebbero essere da guida per chi volesse intraprendere questa professione. Si tratterebbe di “docenti esperti”, sgravati da una parte dell’attività in classe e impiegati in attività di formazione. Alla base ci dovrebbe essere un patto scuola-università e la consapevolezza del logoramento che tale lavoro comporta: è secondo voi accettabile, per esempio, che una maestra elementare faccia ancora 22 ore settimanali in classe, a più di 60 anni e, quando va in pensione, la ricchezza della sua esperienza non venga sfruttata dal docente che la sostituirà, magari un neolaureato in Scienze delle formazione? A mio parere no.
Ma forse (e concludo amaramente), i Signori che decidono le sorti della scuola italiana non sono mai entrati in un’aula scolastica, oppure ci sono entrati decenni fa; non conoscono (o fanno finta di non conoscere) il variegato mondo della scuola italiana, nel quale, passando da una porta all’altra, si incontrano ottimi insegnanti e pessimi insegnanti, che però ricevono lo stesso stipendio, graduato, come unico criterio, sull’anzianità di servizio. Ma se la scuola è davvero un ascensore sociale, credo che debba diventare un campo ambìto anche dalle nuove e migliori generazioni: chi, dopo una laurea magari con 110 e Lode in Matematica, avrà voglia di tentare un concorso per la scuola? E quindi la scuola, finchè rimarrà così, sarà purtroppo un ammortizzatore sociale per chi ci vorrà entrare e vivacchiare, certo che, sia lavorando bene, sia lavorando male, si riceverà lo stesso trattamento.
La tua disamina è intelligente, Matteo, da laureato 3+2 ed ex-tirocinante TFA (cui è seguito un concorso selettivo) non posso che darti ragione. Bisognerebbe accogliere la proposta di Bertagna e dare un esonero parziale ai colleghi cinquantenni e sessantenni in modo che la loro esperienza sia d’aiuto ai più giovani. I neolaureati potrebbero dare una mano per il potenziamento, i corsi di recupero estivi, le TIC o in mille altri modi, c’è sempre bisogno di una mano specie in classi numerose. Avendo io stesso classi da 30 alunni mi chiedo, come tanti, perché non si possa abbassare il numero minimo di alunni, visto anche che è fissato a 15 il numero di studenti per docente quando si va in gita…
Sulla mancanza di carriera non c’è molto d’aggiungere, il primo scatto stipendiale è dopo 8 anni anni dal ruolo se non erro e non basta organizzare progetti per sentirsi gratificati. Il problema è che il lavoro del professore richiede molte ore anche pomeridiane e lascia poco spazio alla vita privata.
Circa i precari posso dire di conoscerne alcuni che vivono una vita fatta di abnegazione, anche con cattedra su più istituti. Dopo 4 o 5 anni da supplente in un istituto perché non assumerli attraverso un percorso ad hoc? Hanno fatto gavetta, hanno magari quarant’anni, conoscono i colleghi e le dinamiche della scuola in cui lavorano, che senso ha immettere al loro posto un vincitore di concorso ventenne che deve orientarsi da zero?
Da ultimo c’è il nodo dolente di come valutare l’operato dei docenti, a mio avviso una delle modalità da privilegiare sono i questionari ad alunni e genitori, ma non penso entreranno mai a regime.
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