Letture disturbanti? “Ernesto” di Umberto Saba

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Triestinità

Sono le ore 17 di sabato 19 luglio 2025 e, dopo tre tentativi andati a vuoto, riesco finalmente a varcare, non senza emozione, la soglia della Libreria Antiquaria Umberto Saba a Trieste. Quest’ultima è stata riaperta con continuità dal libraio Massimo Battista solo di recente, a partire dal 28 gennaio 2025, giorno dell’anniversario della scomparsa di Mario Cerne, figlio di quel “Carletto” Cerne, fidato aiutante di Saba che, dopo anni di lavoro a fianco del poeta, ne aveva acquistato la libreria.

Immagine reperibile all’url https://www.erodoto108.com/luoghi-di-resistenza-inconsapevolela-solitudine-del-libraio-di-trieste/

Entrare qui è come fare un tuffo nel tempo e nella storia letteraria di uno dei poeti più importanti del Novecento: i soli 80 mq includono 28.000 volumi, lettere originali di Saba e macchine da scrivere, oltre che autoritratti del poeta; di fronte all’ingresso, su un tavolino di legno, mi colpisce, in mezzo a libri più o meno noti su Trieste, il volumetto Ernesto, edito da Einaudi. Ammetto che il mio animo da (ex) filologo, appena ha visto “a cura di Maria Antonietta Grignani” ha avuto subito un sussulto, e quindi, insieme alla borsa della libreria, ho incluso nella mia spesa anche l’unico romanzo scritto da Saba.

Interno della Libreria Antiquaria Saba, foto mia.

Un’opera negletta e incompiuta

A Ernesto, nelle storie della letteratura, viene dedicato un paragrafetto, dove viene solitamente bollato come una “rievocazione senile di un’esperienza omosessuale avvenuta in gioventù”; in realtà, leggendo la Nota al testo, che include Storia di “Ernesto” e la Nota filologica della Grignani, si viene a conoscenza che il romanzo, intitolato inizialmente Intimità, era in realtà tenuto in grande considerazione da Saba; nella clinica romana Villa Electra, dove era ricoverato nel 1953, il vecchio romanziere ne leggeva brani al medico Bollea e ad alcuni visitatori, tra cui lo scrittore Carlo Levi (Carlolevi nelle missive). In una lettera a Lina, scrive:

Mia Lina, tutta la settimana volevo scriverti, ma ero preso da un lavoro del quale ti parlerò a voce. Ne ho terminato il primo episodio; che potrebbe anche stare a sé. Tutte le persone alle quali l’ho letto, Linuccia, Carlolevi, Bollea e un giovane qui ricoverato, dicono che è la più bella cosa che abbia scritto […]. Se potessi continuare, […] il libro si intitolerebbe INTIMITA’.

Saba era molto preso dalla trasposizione della propria adolescenza nella figura del giovinetto Ernesto (pure lui triestino, figlio di madre sola, allevato da una balia e passato dalla scuola al piccolo impiego in una casa commerciale); lo dice persino nel ringraziamento per la laurea honoris causa, del 28 giugno 1953, quando ammette di voler inserire delle espressioni “all’Ernesto” nel suo discorso. Nei mesi successivi la stesura prosegue però tra indecisioni e riscritture: «traversie di salute, lutti e ben noti problemi psicologici affliggono Saba negli ultimi anni di vita» e l’autore si preoccupa di «tutelarne la clandestinità» (U. Saba, Ernesto. A cura di Maria Antonietta Grignani, Einaudi, Torino 2015, p. 139). Egli aveva consegnato i dattiloscritti a Carlo Levi con l’invito, “virgiliano”, di bruciarli appena ne avesse avuto l’ordine, ma il romanzo fu trascritto dalla figlia Linuccia in vista dell’edizione postuma, che avvenne per Einaudi nel 1975. L’edizione del 2015, condotta dalla filologa pavese, che ha avuto accesso ai testimoni del Fondo Manoscritti di Autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, corregge però alcune modifiche di Linuccia e, soprattutto, restituisce la patina linguistica triestina, vera caratteristica del romanzo.

La trama, in breve

Ernesto è un romanzo breve (o racconto) di circa 120 pagine strutturato in cinque episodi, a cui segue una lettera di Ernesto a Tullio Mogno, datata 22 settembre 1899; fra il quarto e il quinto episodio è inoltre frapposta una pagina che si intitola Quasi una conclusione. I cinque capitoli si caratterizzano per essere tutti concentrati su pochi eventi narrativi in sé conchiusi nel breve spazio di poche pagine: nei primi due si mette in scena la relazione tra Ernesto, sedicenne impiegato presso il signor Wilder, e un manovale della ditta in cui lavorano, definito un uomo, innominato, che farà delle avances sessuali al giovane, il quale accetterà subito un rapporto omosessuale anale. Nel terzo, che esordisce con il comando della madre Celestina di tagliarsi i capelli, si racconta l’iniziazione al sesso eterosessuale con la prostituta Tanda; il quarto è dedicato alla lettera di licenziamento che Ernesto consegna al signor Wilder e al tentativo maldestro della madre di farlo riassumere, che scatena però la confessione finale del figlio. L’ultimo capitolo vede invece il giovane triestino, ormai disoccupato, partecipare a un concerto di Ondriček, dove incontra un quindicenne di nome Ilio, appassionato anche lui di musica e con cui inizia un’amicizia, la cui evoluzione è però troncata.

Un romanzo scabroso?

Ernesto, com’è noto, venne scritto nel 1953, negli ultimi anni di vita del poeta che definisce la sua opera, in una lettera a Pier Antonio Quarantotti Gambini, un romanzo «insieme lieto e spietato: spietato per aver superato, scrivendone quello che ne ho scritto, tutte le possibili inibizioni. (Sapevo da quando ne ho scritta la prima riga in clinica, che non era per la pubblicazione)». In realtà quello che convince meno l’anziano romanziere è il dialetto usato nei dialoghi tra Ernesto e l’uomo, ma non bisogna dimenticare che quelli erano gli anni di uscita anche di Ragazzi di vita di Pasolini, che venne processato per oscenità; la tematica omosessuale, che in Ernesto si manifesta con ingenuità, ma in modo comunque esplicito, non era ancora accettata nell’Italia del secondo dopoguerra e quindi il vecchio poeta avrà presumibilmente voluto evitare “magagne” negli ultimi anni della sua vita.

Leggere il romanzo, nel 2025, è un’esperienza totalmente diversa: espressioni come «mettermelo in culo» oppure «Ghe cavo fora mi», ad indicare il momento in cui il ragazzo confronta il proprio membro con quello dell’uomo non credono scandalizzino più nessuno. Però, retrodatandolo al 1953, posso capire come un dialogo del genere potesse spiazzare, pregiudicarne la pubblicazione e, soprattutto, la diffusione:

Il ragazzo aveva appena allungata la mano, che l’uomo lo fermò.

«No, no con la man – disse: – se no el me fa vinir»

«E no sè quel che el vol?»

«Sí, ma no in man».

«Ah!» fece Ernesto. E ritirò pronto la mano, come da una cosa proibita. L’uomo gli si faceva sempre piú vicino.

«Gò paura» disse Ernesto.

«De cossa? Nol sa che ghe voio ben?».

«Ghe credo; se no… Ma gò paura che el me fazi mal lo stesso».

«Mi mal a lei? So come che se trata un ragazo che fa la prima volta, e lei piú de un altro».

«Nol lo meti miga tuto?» disse Ernesto.

«El sè mato?» sorrise l’uomo. «Un gnente, apena in punta». (p. 14).

In realtà, pur nella cruda rappresentazione di alcuni snodi sessuali, il romanzo si presenta limpido e trasparente nel dipingere un innocente, Ernesto, messo a contatto con un mondo esterno che per lui si presenta ostile in diversi ambiti: un lavoro che non ama, un’esperienza omosessuale più subìta che voluta, un contesto familiare monotono e oppressivo, un’esperienza eterosessuale non goduta fino in fondo e di cui si vergogna. Ernesto è infatti un artista, suona il violino (anche se in modo mediocre) e vorrebbe fare carriera nel mondo della musica.

Romanzo e poesia: un binomio inscindibile

Approfondendo Ernesto, emergono con evidenza alcuni temi che, presenti nel Canzoniere, vengono travasati nel romanzo postumo: pensiamo a quello familiare, ma anche all’infanzia, ai traumi ad essa connessi e al rapporto con la balia.

Ernesto è stato abbandonato dal padre e la mancanza di una figura paterna positiva e i sentimenti ambigui per coetanei belli erano già snodi del Canzoniere, specie nelle sezioni Autobiografia e Il piccolo Berto. Nel romanzo, però, le avventure omosessuali vengono descritte con dovizia di particolari, senza reticenze, come avviene invece nelle liriche. Anche l’episodio finale, in cui l’ormai disoccupato Ernesto incontra il quindicenne Ilio, presenta un taglio “da Canzoniere“:

Il fanciullo sorrideva – come si dice – agli angeli. Era davvero bellissimo. Era – Ernesto non ne dubitò un attimo – uno studente di violino, un futuro concertista che avrebbe, a suo tempo, eclissato tutti gli altri. Rimase immobile a guardarlo […]. A questa svalutazione di sé medesimo (propria, anche nei casi normali, agli innamorati adolescenti) si aggiungeva il desiderio di conoscerlo, di farsi, com’egli l’ammirava, ammirare da lui (Ernesto, op. cit., pp. 103-105, con tagli).

Anche la figura della zia, che mantiene Ernesto e la madre, era già presente in una poesia a lei dedicata nel Canzoniere, intitolata A mia zia Regina. Si tratta di evidenti ricordi autobiografici, dal momento che la zia Regina era persona molto cara a Saba: segue infatti con passione i suoi primi scritti e lo aiuta, economicamente, nella sua crescita consentendogli di andare a studiare a Pisa nel 1903. Al poeta la zia lascia inoltre in eredità 100.000 corone. Nel romanzo, essa incombe come presenza resa ostile e arcigna dalla madre che, non appena viene a sapere della lettera di licenziamento di Ernesto, pensa alle conseguenze che avrà nel rapporto con l’anziana e facoltosa parente.

Si potrà continuare questa connessione Canzoniere-Ernesto con la figura del giovinetto Ilio, che ricorda, nella descrizione che ne fa la voce narrante, il Glauco della celebre lirica della raccolta poetica:

Glauco, un fanciullo dalla chioma bionda,
dal bel vestito di marinaretto,
e dall’occhio sereno, con gioconda
voce mi disse, nel natìo dialetto:

Umberto, ma perché senza un diletto
tu consumi la vita, e par nasconda
un dolore o un mistero ogni tuo detto?
Perché non vieni con me sulla sponda

del mare, che in sue azzurre onde c’invita?
Qual è il pensiero che non dici, ascoso,
e che da noi, così a un tratto, t’invola?

Tu non sai come sia dolce la vita
agli amici che fuggi, e come vola
a me il mio tempo, allegro e immaginoso.

L’elenco potrebbe continuare, menzionando il rapporto di Ernesto con la balia, che rievoca quello di Saba con la Peppa, ma anche l’evento centrale del Terzo episodio, il taglio dei capelli e della barba, vero e proprio rito di iniziazione, è in realtà una rielaborazione (allungata) della lirica La fanciulla:

Un giorno ti tagliavano i capelli.
Stavi, fra il tuo carnefice e la mamma,
stavi ritta e proterva;
quasi un aspro garzon sotto la verga,
a cui le guance ira e vergogna infiamma,
luccicavano appena i tuoi grandi occhi;
e credo ti tremassero i ginocchi
dalla pena che avevi.

Grignani analizza così i rapporti tra il Canzoniere ed Ernesto: «la differenza tra le poesie e il romanzo sta anche in una sorta di vagheggiamento della naturalità omosessuale del mondo classico, che Saba» confida alla moglie Lina in una scampagnata fuori porta durante il soggiorno in clinica nel 1953, che coincide col fervore compositivo di Ernesto. Sentiamo le sue parole: «Nessuno era molto giovane, tranne il giocatore di calcio e la moglie di un chirurgo; ma tutto aveva un’aria di giovanezza, tutto era come impregnato di maternità […]. Mi pareva di vivere nella Grecia antica e mi veniva, di nascosto, le lacrime agli occhi» (Introduzione a Ernesto, op. cit., pp. XVII-XVIII).

Perché leggere Ernesto nel 2025

Negli ultimi anni si stanno diffondendo termini come letteratura queer e, in generale, si sta cercando di accogliere, all’interno di un canone sempre più inclusivo, le produzioni di autori omosessuali e non binari; l’antologia di Johnny Bertolio, Controcanone (ne scrivevo qui) propone, oltre alle scrittrici, testi di autori eccentrici o su tematiche queer, ma anche Canone ambiguo di Luca Starita (acquista qui) è un ottimo punto di partenza per entrare in questo mondo, sempre più studiato specie in ambito accademico.

Personalmente, non ascrivo Ernesto alla letteratura LGBTQ+, ma lo considero un’ottima introduzione per parlare, in modo delicato, di tematiche come la sessualità, l’omosessualità e il rapporto genitori-figli. Mi sento quindi di proporre 5 motivi per leggere Ernesto:

1. La commistione tra italiano e dialetto triestino, che trasporta nel cuore di Trieste, come se ci trovassimo nel cuore della Città vecchia. Il triestino ammorbidito e alquanto italianizzato dei dialoghi tra Ernesto e il bracciante risulta infatti perfettamente comprensibile e dà vita a un mimetismo che è la cifra del romanzo.

Strada triestina che conduce a San Giusto, foto mia.

2. La scansione in episodi, tutti unitari e incentrati su eventi in sé conclusi: Ernesto è una sorta di romanzo di formazione scandito per tappe, senza complicazioni nella trama e molto godibile nella lettura.

3. La capacità di rappresentare, tramite la lingua e i gesti, le emozioni del protagonista, vero e proprio attore principale sulla scena, verso cui il lettore non può che provare empatia e affetto.

4. L’autobiografismo e la possibilità di legare “Ernesto” a temi e motivi tipici del “Canzoniere”, come si è visto sopra.

5. La tematica omosessuale, svolta qui senza morbosità, ma con uno sguardo interessante verso le pulsioni umane, con una condanna del bigottismo borghese che ricorda un po’ il pensiero di Pasolini. In particolare, la mamma Celestina si dimostra molto comprensiva nei confronti del figlio dopo la confessione del rapporto con l’operaio e non gli attribuisce colpe.

Insomma, una romanzo da riscoprire, da togliere dal dimenticatoio e da apprezzare al di là della mezza pagina che gli è dedicata nelle storie letterarie.

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