I voti: il male della scuola italiana?

Tempo di lettura stimato: 9 minuti

Ha fatto molto discutere su giornali e media la sperimentazione del Liceo “Morgagni” di Roma, dove da 7 anni sono presenti delle sezioni in cui la valutazione viene fatta attraverso giudizi descrittivi in calce alle prove scritte, confronti aperti in classe con gli studenti e si “vedono i voti” solo alla fine, nella pagella del I e II periodo. Come ha illustrato bene il prof. Enzo Arte in un’intervista sul «Corriere dell’Università», al Morgagni «I voti vengono messi alla fine, ma non durante il percorso scolastico. Si cerca quindi di orientare gli studenti durante il loro percorso». Molto importante, spiega il docente, sono le autovalutazioni descrittive «dove [gli studenti] prendono ancor di più coscienza di cosa sanno o no». Secondo l’ideatore del progetto, «con questo metodo i ragazzi sono più sereni durante il percorso scolastico, vedendo delle frasi che li accompagnano durante il percorso». I risultati poi dei test d’ingresso all’Università stanno dimostrando che queste sezioni sono tutt’altro che “blande”, ma preparano ancor meglio alla formazione post diploma; quindi basterebbe eliminare i voti per risolvere gran parte dei problemi di ansia che affliggono gli studenti degli anni Venti del XXI secolo e migliorare la qualità della didattica e dell’esperienza scolastica? A mio avviso la questione è molto più complessa.

Immagine reperibile all’url: https://www.romalife.it/2021/01/08/professori-liceo-morgagni-no-al-rientro-a-scuola-senza-un-vero-piano-e-senza-vaccinare-i-docenti-la-lettera/

Parto dal presupposto che valutare e dare voti è, per me, uno dei momenti più difficili della professione di insegnante e, sinceramente, ne farei io stesso a meno: ogni valutazione, infatti, pur ponderata ed effettuata con le griglie di misurazione più precise, reca in sé il giudizio di un essere umano su una prestazione di un altro essere umano; scriviamo nelle nostre programmazioni che nella valutazione si fa riferimento allo studente come persona, ai suoi miglioramenti, al suo percorso di crescita, ma, alla fine dei conti, giudichiamo una prova orale, una traduzione di latino, un test, un tema su criteri disciplinari, sennò sarebbe il trionfo dell’arbitrio. A completare il quadro “di disagio” si aggiungono le lamentele degli studenti che talvolta contestano la valutazione, a cui seguono, solitamente, quelle ben più pesanti dei genitori, con l’andazzo «Mia figlia / Mio figlio non ha mai avuto problemi in …, li ha solo da quando ha lei come insegnante; alle medie aveva 10 in. …».

Pur demonizzato, a mio avviso, il voto risulta quasi sempre il principale sprone per far studiare gli studenti; credo infatti che in una classe media soltanto il 10-15% studi per passione, per il desiderio di apprendere e che la maggior parte veda nella valutazione positiva il principale pungolo per buttarsi sui libri, per approfondire in vista di un voto positivo, pensando alle ricadute concrete di un 8, 9, 10, ma anche di un 6: una mancia da parte della nonna o della zia, un premio dei genitori, un’estate libera dal fardello dei debiti, la possibilità di programmare l’anno successivo con più serenità. Se ripenso infatti alla mia classe di liceo e a me stesso, devo ammettere che studiavo per i bei voti più che per cultura personale; d’altra parte credo che a quell’età non si abbia la maturità per uno studio svincolato da una valutazione numerica o di livello. A mio avviso, è con l’Università che si inizia a studiare per passione, per migliorare il proprio bagaglio culturale anche se, pure in questo contesto, come dimostrano i recenti casi di suicidi (leggi qui), la molla è spesso il voto alto, che permette di mantenere delle borse di studio, in una distorsione, a mio avviso, del concetto stesso di merito.

Immagine reperibile all’url: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2023/02/03/news/universita_la_rabbia_dopo_il_suicidio_non_vogliamo_morire_per_il_merito-386256956/

Ma quindi, perché se anche prima si studiava per il voto, ora si avanza la proposta di eliminarlo, per una scuola più inclusiva e a misura di studente?

Dal mio punto di vista, stanno penetrando anche nella scuola quelle dinamiche di competizione tossica (aggettivo tipico dei miei studenti) che caratterizzano la società contemporanea e sono amplificate dai social network: ogni verifica diventa quindi un momento di vita o di morte per lo studente, ansioso su quali argomenti verranno richiesti, su come sarà strutturata la prova stessa, quale soglia di sufficienza verrà indicata. D’altra parte, se tutto fuori è una corsa accelerata al successo, prendere a scuola 6 o 5 significa essere un mediocre, un 4 o un 3 un fallito. Come docente, queste dinamiche spiazzano perché fanno perdere serenità e, anche oggettività, nel valutare certe prove. Io stesso, quando vedo un grande impegno, ma una prestazione sporcata da errori e goffaggini, sto male nel dover attribuire una valutazione che non rispecchia lo sforzo dello studente. Negli anni precedenti, onestamente, sentivo meno disagio nell’assegnare valutazioni non positive a studenti volenterosi.

Inoltre la stessa logica dei test d’ingresso universitari (e dei TOLC, di cui ho scoperto l’esistenza quest’anno…) sta diventando davvero invalidante negli ultimi anni della scuola secondaria di II grado (se volete approfondire, ne ha parlato lunedì l’acuta Emanuela Bandini sul blog di Luperini), così come quella delle certificazioni linguistiche: si tratta di ulteriori motivi di stress e momenti di valutazione che si aggiungono a quelli disciplinari e previsti dal piano delle materie: perché inquinare gli ultimi due anni di scuola superiore con test di medicina, infermieristica, architettura per poveri studenti che, magari iscritti a un liceo umanistico, vogliono entrare in una facoltà scientifica e devono sobbarcarsi corsi online e test a ripetizione nelle sedi più disparate? La stessa logica delle certificazioni linguistiche, con esercitazioni, livelli e simulazioni avvalora ancora di più questa corsa alla valutazione, in ogni campo, con conseguenze di ansia, stress per i poveri alunni. Si diventa un livello, un numero, una fascia nella certificazione, in logiche che, sebbene rispondenti al mondo del lavoro, ben poco hanno a che fare con la personalizzazione degli apprendimenti tanto sbandierata dal MIM.

Il famigerato test di medicina.

Un frullatore: ecco come potrei definire ormai la scuola superiore. I momenti di condivisione e di vera promozione di competenze anche sociali sono ridotte ai viaggi d’istruzione (finanziamo delle borse di studio per chi non ne ha la possibilità, grazie!), parentesi liete in uno schiacciasassi di prove Invalsi, test d’ingresso, certificazioni linguistiche, informatiche, stage, orientamento. Il fatto è che all’interno di questi spazi bisogna ricavare tempo per portare avanti le Indicazioni nazionali e dare un “congruo numero di voti”. L’ora di lezione, nel senso recalcantiano del termine, sta per essere sempre più erosa da un contorno che, invece, sta diventando il piatto principale. Forse questa scuola dei “progetti” mal si concilia con una generazione sempre più fragile, che andrebbe rassicurata (potenziando il servizio di ascolto psicologico) e di cui bisognerebbe consolidare le competenze di base (scrittura, matematica, scienze, inglese) più che coinvolgere in mille iniziative, lodevoli eh, ma talvolta “acchiappa iscrizioni”.

E qui sta la mia proposta, per non far diventare quest’articoletto scritto di getto un’accozzaglia di geremiadi di prof. di lettere in burnout: anzitutto ridurre il numero di valutazioni per disciplina perché, con i nuovi piani di studio, in alcuni indirizzi (penso al Liceo Linguistico e alle sue 12 materie al triennio) si viaggia con la media di una verifica al giorno e la scuola sta diventando insostenibile per gli alunni, trasformandosi in un vero e proprio verifichificio (esiste questo termine?). Non credo che la proposta di occultare i voti sotto le valutazioni formative sia efficace: da studente, vorrei sapere (quanto prima poi) se la mia prova è sufficiente o meno e lo vorrei sapere chiaramente come feedback del lavoro fatto; i docenti seri, d’altra parte, raramente lasciano un asettico voto, ma aggiungono spesso un giudizio sintetico (penso all’elaborato scritto di italiano o alla versione di latino) in cui appuntano punti di forza e criticità della prova.

Un’idea (e vengo alla pars construens) potrebbe essere quella di introdurre anche alle superiori una sorta di “sessione” (magari su 10 giorni) dedicata a prove scritte delle diverse discipline, con gli orali magari interdisciplinari (sul modello del colloquio della maturità) o nella forma di brevi approfondimenti su parti del programma assegnati individualmente; al termine di questa “sessione”, in base ai “risultati”, si potrebbe pensare alla creazione di classi aperte in cui proporre attività di recupero, consolidamento o approfondimento differenziando e personalizzando così l’apprendimento. In questo caso si potrebbero anche valorizzare le eccellenze che, ahimé, nella scuola attuale, si annoiano molto nelle settimane dei recuperi e potrebbero magari essere coinvolti in visite sul territorio o in attività di laboratorio o di peer tutoring. Il resto del quadrimestre (prima e dopo la sessione) potrebbe essere dedicato alla spiegazione, a dei test non valutati su parte di programma, ad attività laboratoriali, potenziando magari la compresenza, per non far “perdere il posto” a un numero sempre crescente di docenti che, causa la denatalità, sono destinati a non avere la cattedra garantita.

La scuola nei prossimi anni, se non si invertiranno le tendenze demografiche, rischierà di avere molte aule vuote e dovrà cercare nuove configurazioni: cerchiamo un confronto con i docenti che vivono i disagi della scuola, senza calare dall’alto iniziative, come quella del docente tutor, che fiaccheranno ancora di più la buona volontà dei bravi docenti, da cui ripartire per una buona scuola. Perché, dico un’ovvietà, la buona scuola la fanno i bravi insegnanti, non le riforme calate dal MIM che, nonostante la seconda M dell’acronimo, non valorizza per nulla il Merito.

2 pensieri riguardo “I voti: il male della scuola italiana?

  1. Quello della valutazione è il vero nodo gordiano della scuola. Da anni se ne parla, specie, ma non solo, in sede di dipartimento di lettere (con tanto di griglie docimologiche da modificare) e in fantomatici corsi di aggiornamento. Mi è capitato di lavorare in un liceo scientifico che per un periodo aveva proposto una valutazione a tre livelli (tip. A, B e C) e prevedeva una media ponderata tra test di natura diversa: la domanda estemporanea sulla lezione del giorno, il tema in classe, la prova di fine anno sulle competenze… Non se n’è fatto più nulla perché si è capito che complicava troppo la vita dei docenti e degli studenti.
    C’è chi dice che per abbassare il livello di stress basterebbe proporre più verifiche ma su contenuti circoscritti così gli studenti non avrebbero l’ansia da prestazione in vista della verifica sommativa “impossibile” (della serie o vivo o morto).
    Sono dell’idea che un buon compromesso sia quello di avere un numero minimo di verifiche pari al numero di ore settimanali della disciplina: 4 ore d’italiano, quindi 4 voti nel quadrimestre, 2 di latino e allora 2 e così via.
    Ultimamente sto apprezzando anche i lavori di classe, debate, podcast, mostre interattive; si possono valutare anche esperienze di PCTO, le attività della cogestione, ecc…
    Il punto è che come dici tu, Matteo, la scuola è diventata una fabbrica di progetti e resta poco tempo per l’attività didattica tout court. I ragazzi vogliono i bei voti, ne va della loro autostima, e un po’ di competizione ci sta, però quando la cosa diventa eccessiva il clima in classe ne risente. Ben vengano idee come la tua, una sorta di maturità anticipata a scadenza fissa, se ne può parlare.

    Ps a proposito del culto del lavoro e del merito consiglio l’ultimo libro di Maura Gancitano “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”.

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    1. Da noi si punta già al numero minimo di voti, che corrispondono alle ore della materia. Va da sé che anche questo implica delle verifiche – mattone perché se pensiamo a storia che ha 2 ore, 2 sole prove potrebbero coprire 100 pagine e più. Non se ne esce, ma forse è la scuola italiana che dovrebbe davvero ricalibrare gli apprendimenti in un’ottica verticale.

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