Sugli “scritti” all’Esame di Stato

Domenica scorsa, facendo zapping, mi sono imbattuto nella trasmissione Rebus condotta dal sempre ottimo Corrado Augias, che ho apprezzato di recente nel programma Città segrete e di cui invidio la lucidità e la pacatezza che mantiene alla sua età (controllatela su Wikipedia e farete un balzo sulla sedia). Ospite della puntata era lo storico e star del web Alessandro Barbero e l’ultimo segmento prevedeva la partecipazione di due rappresentanti degli studenti, Valeria e Luca, che stanno manifestando per i morti durante l’alternanza scuola-lavoro e per l’Esame di Stato come presentato dal ministro Bianchi.

Mi taccio sull’alternanza scuola lavoro (ora chiamata, d’altra parte, PCTO) e in questo articolo, dai toni un po’ polemici, vorrei soffermarmi sulle parole della studentessa per poi riflettere sulla narrazione dei media e su come la realtà rappresentata sia diversa rispetto a quella di chi vive la scuola ogni giorno, con le mille difficoltà e, va detto, le altrettante mille soddisfazioni. Mi piace riportare qui degli stralci del discorso di Valeria: «Io penso di parlare a nome di una grande componente studentesca e il problema è che non tiene in considerazione il nostro percorso negli ultimi tre anni […]. Tre dei miei cinque anni li ho passati in didattica a distanza a casa, davanti a un computer e, per esempio, le prove scritte non le abbiamo più fatte. Io sono al liceo classico e non ho mai fatto versioni di latino e greco. Io so scrivere, ma per fare il tema di italiano che viene richiesto all’Esame di Stato c’è bisogno di un esercizio costante, non è solo uno scrivere le proprie riflessioni, ma è anche la capacità di analizzare un testo». Alla domanda di Augias che, un po’ ingenuamente, paragona il saper esporre oralmente allo scritto, Valeria controbatte così: «A parte che non è una novità che nelle scuole superiori negli ultimi anni i temi sono diminuiti tantissimo e si fa molto meno spesso esercizio di scrittura e al liceo ho fatto pochissimi temi ed esercizi di scrittura. La mia capacità di scrivere me la porto dietro dalle medie». Valeria non accetta, infine, che al culmine del percorso di studio ci sia un Esame che non corrisponde al modo di studiare degli ultimi anni, stravolto dalla pandemia.

Posto che ognuno vede la scuola, ahimé, dal piccolo cantuccio in cui si trova a operare quotidianamente, vorrei cercare un po’ di ridimensionare questa pars destruens che emerge dal discorso della studentessa, come se i tre anni scolastici precedenti fossero stati un disastro completo e la scuola italiana da cestinare in toto. Anzitutto non si può parlare di tre anni su 5 fatti in didattica a distanza. Se consideriamo gli studenti di quinta che affrontano quest’anno l’Esame conclusivo, hanno svolto certamente in didattica a distanza i mesi da marzo a giugno 2020 (primo lockdown) e da ottobre 2020 a marzo 2021 (seconda ondata), mentre l’anno corrente si sta avviando al termine, quarantene a parte (che dipendono anche da elementi di fortuna/sfortuna), quasi tutto in presenza.

L’assunto implicito da cui parte poi la studentessa è che solo la scuola in presenza sia scuola vera, mentre la Dad un succedaneo che ricorda vagamente quella “in carne e ossa”. Come docente e professionista, mi trovo a dissentire: in questi due anni di pandemia (cominciamo a dire 2 e non 3…) abbiamo frequentato corsi su corsi, condiviso esperienze con colleghi di tutta Italia per integrare didattica digitale / a distanza e in presenza. Siamo stati bombardati di proposte di formazione e di innovazione, che ritengo mi abbiano fatto crescere nella mia professionalità molto più, forse, che durante l’anno in cui mi sono abilitato. Alcune di queste proposte riguardavano anche la scrittura (ricordo i webinar Loescher della Prof.ssa Mizzotti o della sempre ottima Paola Rocchi) con una parte laboratoriale che è stata molto fruttuosa nell’applicazione in classe; altre riguardavano strategie per ricalibrare (mi piace molto questo verbo) l’insegnamento (di tutte le discipline!) nella scuola “a distanza”, salvaguardando i contenuti essenziali, in ottica Esame di Stato. Dal settembre 2020 poi si parla di Didattica Digitale Integrata, proprio a dimostrare come non si possa più, in un contesto pandemico e mutato, opporre una didattica analogica, in presenza, “cartacea”, a una digitale, a distanza e online, proprio perché le due dimensioni sono intrecciate e, come dimostrato quest’anno, simultanee. Ovviamente si parla di stili di apprendimento diversi, ma credo che la didattica digitale abbia avvicinato gli studenti al mondo del lavoro e alle competenze (anche soft) richieste molto più di settimane passate magari in alternanza a fotocopiare documenti e archiviare pratiche.

Valeria afferma di non aver mai fatto prove scritte, ma posso assicurare (e lo dimostrano i tantissimi docenti incontrati ai webinar) che in questi tre anni scolastici non si è mai scritto tanto: occasioni di scrittura magari brevi, col digitale, di interpretazione, rielaborazione personale (i testi prettamente espositivi sono stati, per ragioni di inquinamento, ovviamente ridotti al minimo) che sono serviti a noi insegnanti di lettere per monitorare il processo di apprendimento e, lo ammetto, stare vicini agli studenti, per usare una bellissima espressione usata dal Prof. Stefano Rossetti, membro del Direttivo degli Italianisti, in un contributo su Griselda online (se volete, recuperate il suo articolo qui). Personalmente, ho corretto e ricorretto (lo spiego qui), caricato compiti di scrittura che ho letto, analizzato, vivisezionato. In presenza, quando è stato possibile, ho proposto verifiche scritte sulle tipologie del nuovo Esame di Stato, mantenendo una continuità con quanto ho fatto elaborare online, durante i periodi “a distanza”, raggiungendo a giugno un numero di prove perfettamente in linea con quello degli anni pre-covid. Nelle prove svolte online sarò stato in molti casi preso in giro, avranno sicuramente copiato dal web, ma anche informarsi e reperire informazioni in rete sia una competenza trasversale che questa didattica a distanza, mostro terribile, ha promosso. Ricordo anche bene che le prime circolari ministeriali della primavera del 2020 parlavano di valutazione diffusa, di prendere in considerazione ogni elementi che potesse concorrere a un giudizio finale…insomma, niente di nuovo che il buon docente non conoscesse da anni!

La narrazione dei media, invece, batte sempre sugli stessi stereotipi: studenti abbandonati a se stessi, professori assenteisti e incapaci di gestire l’insegnamento/apprendimento a distanza, scuola dimidiata, programmi svolti parzialmente, verifiche saltate, studenti che si collegano da cellulare alla lezioni; ovviamente ci saranno anche queste realtà, ma in quale percentuale? Forse sarebbe stato opportuno un’indagine, in questi anni, su tali situazioni. Sennò si parla sempre per luoghi comuni e si pecca di onestà intellettuale. Posso dire con certezza che mai come in questi anni siamo stati vicini agli studenti e abbiamo curato il loro processo di apprendimento, guardando anche alle ricadute psicologiche di questa pandemia.

Ma è nella parte finale del discorso di Valeria che trovo un elemento interessante su cui riflettere e avanzare una pars costruens: Valeria vuole un esame che corrisponda al modo di apprendere degli ultimi anni, stravolto dalla pandemia. Perché, dico io, non introdurre, anche lì, il digitale? Se è vero che gli studenti hanno appreso per lunghi periodi a distanza, è altrettanto vero che si sono formati con le nuove tecnologie e quindi sarebbe assurdo non valorizzarle in questa sede, se si escludono i 5 minuti sul PCTO, che prevedono una presentazione multimediale. Se il “tema” di italiano (odio chiamarlo così…) può essere salvato, visto che si tratta di un’abilità che può prescindere dalla tecnologia, sarebbe interessante proporre, al posto della seconda prova tanto temuta, un prodotto multimediale, da svolgere online, in 6h, magari nel laboratorio o nei laboratori mobili di informatica, su più giorni in casi di più commissioni dell’Istituto, a partire da tracce predisposte dalla commissione in base agli effettivi programmi svolti. Magari una rielaborazione attraverso un’infografica, un video, uno storytelling, di un tema dell’ultimo anno, sulla falsariga delle numerose proposte di personalizzazione dei contenuti scolastici valutate in questi anni: una prova di competenza, per usare un termine che non si può non citare quando si parla di scuola. Ma qui, ahimé, nascerebbero problemi relativi alla strumentazione in possesso delle scuole, ancora troppo ridotta in relazione alle esigenze di un apprendimento sempre più digitale: se molti studenti di aree economiche avvantaggiate possono avvalersi del BYOD (Bring Your Own Device), il problema si porrebbe in aree del Paese nel quale la dotazione informatica è ridotta tanto nelle scuole quando nelle case degli studenti. Non parliamo poi della connettività, su cui bisogna fare passi da gigante per adeguarci ai Paesi dell’UE.

Si tratta solo di idee, ipotesi, ma credo che forse bisognerebbe ragionare sulla scuola, vero motore del Paese con più obiettività e meno tendenziosità, valorizzando il già fatto, focalizzandosi sui punti di criticità, senza perdere perdere tempo in geremiadi e laudationes temporis acti. E voi, cosa ne pensate? Scrivetelo nei commenti!

3 pensieri riguardo “Sugli “scritti” all’Esame di Stato

  1. Sottoscrivo, Matteo, i ragazzi hanno scritto in questi due anni, il punto è che sta mutando il tipo di prosa e il livello argomentativo per via dei social. L’idea di una seconda prova che valuti le competenze digitali è lungimirante, ma io l’applicherei magari per la tesina (se verrà reintrodotta). Quello che mi preoccupa è l’onda lunga post-pandemica, i ragazzi che escono dalle medie quest’anno in che situazione sono?

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  2. Anch’io come Roberto mi preoccupo della preparazione degli studenti che escono dalla secondaria di primo grado. In due anni la situazione è decisamente peggiorata: per colpa di chi? Dei docenti, poco disponibili e competenti, oppure degli studenti che hanno “preso sotto gamba” i mesi trascorsi in Dad? Io non lo so ma sinceramente non trovo giusto abbassare i livelli (specie nei licei) e sarebbe per me auspicabile una maggior collaborazione tra docenti dei due gradi di istruzione. Ma come? Nelle grandi città un dialogo è possibile solo in alcune realtà periferiche, mentre nelle piccole è forse ancora più problematico questo confronto perché gli allievi provengono dai paesini più disparati (penso a una città di provincia come la mia).

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